Un giurista, un politico, un cattolico. Soprattutto un sardo, anzi un sassarese, profondamente legato alla sua città natale, culla di grandi dinastie politiche come i Berlinguer ed i Cossiga. 

Qui nacque nel 1891 da una nobile famiglia e divise la sua età giovanile tra lo studio del diritto, di cui divenne professore nel 1920 e la passione politica, che lo portò a unirsi al Partito Popolare di Don Sturzo sin dalla fondazione nel 1919. La carriera accademica proseguì tra Perugia, Cagliari, Pavia e Sassari (ma non Napoli, dove la sua nomina fu impedita dalle autorità fasciste) mentre quella politica si fermò per tutto il ventennio.  

Da Sassari a Palazzo Chigi

Dopo la Liberazione  fu uno dei principali fondatori della Democrazia Cristiana in Sardegna e dirigente nazionale  del partito.  Membro della Costituente, ricoprì per ben undici volte l'incarico di ministro. Fu due volte presidente del Consiglio, infine, capo dello Stato. Un uomo di governo, un legislatore, più che un leader di partito. 

Il suo nome si lega anche alla riforma agraria, una delle più importanti riforme nella storia d’Italia dal 1861 in poi.  

Secondo lo stesso comunista Giorgio Amendola, la legge aveva dato un colpo alle vecchie classi latifondiste e rotto il vecchio equilibrio delle classi dominanti in Italia, l’equilibrio del blocco industriale e agrario. La riforma offrì un lavoro e una vita stabile a più di centomila famiglie, aumentò la produzione, favorì lo sviluppo della cooperazione, costituì una sorta di potente incentivo allo sviluppo economico generale. 

Deputato dalla prima legislatura fino all’elezione al Quirinale, in quel periodo ricoprì numerosi incarichi di governo. Come Presidente del Consiglio formò due governi: il primo (1955-57), con una coalizione di centro (DC con PDSI e PLI). Il secondo (1959-60) fu invece un monocolore DC ma con appoggio esterno di liberali, monarchici e del MSI.

Il primo governo è ricordato in quanto ci fu la firma, il 25 marzo 1957, dei Trattati di Roma, che segnarono la nascita della CEE e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o Euratom). Sono stati anche anni di consolidamento delle istituzioni italiane con la formazione e l’insediamento della Corte Costituzionale, prevista dalla Costituzione, ma fino al 1957 mai insediata. Ci fu inoltre una riorganizzazione dell’assetto di governance delle imprese di stato con la creazione del Ministero per le Partecipazioni Statali. Questo rese le imprese di proprietà pubblica autonome dal punto di vista sindacale e non legate alla Confindustria. 

Quando le categorie sono insufficienti

Definirlo un conservatore, come molti politologi e pubblicisti hanno fatto, è un giudizio semplicistico. Per molti uomini politici è sufficiente un aggettivo per definirli: conservatore, progressista, riformista. Per Antonio Segni un aggettivo non basta. Il suo non è un profilo semplificabile. L’interpretazione articolata della sua opera sembra quella più seria e rispettosa. A volte gli accadde di essere avanti rispetto al processo politico-sociale, quando per esempio elaborò il già citato e ambizioso progetto della riforma fondiaria generale. Altre  si trovò più titubante, a esempio sul percorso riformista, in particolare durante la stagione del centro-sinistra. E' per  questo che la complessa figura di Antonio Segni non va  né etichettata in modo rigido né mitizzata. Il ricordo più equilibrato è stato quello dell'attuale Presidente Mattarella, in occasione dei 130 anni dalla nascita: “La sua figura e l'opera  appartengono alla storia repubblicana, che lo annovera tra gli artefici della ricostruzione e dello sviluppo del Paese” 

Il ricordo va dunque a uno statista che si è impegnato con tutte le sue forze per costruire l’Italia repubblicana.  

Al Quirinale, senza dubbio, fu un presidente “conservatore”, perché avrebbe voluto conservare gli equilibri politici che si erano affermati durante gli anni Cinquanta: la Dc al centro, con i piccoli partiti (Psdi, Pli, Pri) attorno. 

La comprensione del rapporto tra Segni e  le gerarchie cattoliche fornisce elementi interessanti circa la sua cautela nell'avallare il processo di apertura verso i governi di centro-sinistra, già prima di diventare Presidente della Repubblica. 

Tardini, allora Segretario di Stato Vaticano, si dichiarò contro ogni governo sostenuto anche dalla sola astensione dei socialisti. L’apertura a sinistra avrebbe portato − avvertì l’autorevole porporato − alla scissione interna della Dc. Nel 1960 Segni si trovò al centro delle pressioni del Vaticano. Cedette, convinto della necessita di non procedere immediatamente all’apertura a sinistra. Tuttavia, denotando un grande senso tattico, scrisse a Giuseppe Siri, presidente della Cei: occorre mettere alla prova i socialisti; se non per altro, per una questione di strategia politica: una risposta negativa da parte del Psi avrebbe marcato la scelta dei socialisti di non differenziarsi dai comunisti; una risposta positiva, invece, avrebbe separato il Psi dal Pci, e reso la sinistra italiana più debole».  

Nel cuore sempre il Parlamento, ma la via è il Quirinale

“Mi sia consentita un' ultima espressione: quella del profondo mio rimpianto di lasciare quest'aula, dove nell'Assemblea Costituente e sin dall'inizio del Parlamento della Repubblica ho servito quelli che sono gli ideali di tutta la mia vita: democrazia, libertà, giustizia e ordinato progresso.”
Questa citazione, che risale già i tempi del “salto” di Segni dal Parlamento a Palazzo Chigi, fa capire in modo molto preciso quanto il futuro Presidente avesse a cuore la dialettica politica nell'agorà della democrazia . Ma il suo “destino” era altrove.

Le elezioni del 1962 videro Segni da subito individuato come candidato della DC da Aldo Moro. Questa scelta serviva per soddisfare la parte più conservatrice del partito, della società e dell'economia nazionale e rendere possibile al contempo l’avvicinamento ai socialisti. A livello internazionale a equilibrare i rapporti con la politica stelle e strisce, che, pur vedendo governare i democratici, non poteva indispettire l'ala repubblicana.

Il 6 maggio 1962 venne eletto presidente della Repubblica, e l'11 maggio, prestando giuramento davanti al parlamento, indirizzò a questo un messaggio, nel quale indicò alcuni punti fermi cui ispirare il compimento del suo mandato: l' ideale europeistico, la fedeltà all'alleanza atlantica, il rigoroso rispetto della Costituzione e delle prerogative politiche del parlamento e del governo, l'impegno a operare per l'ordinato progresso della democrazia italiana, in un collegamento forte  con i valori della libertà, della giustizia e dell’indipendenza per i quali si erano immolati i protagonisti del Risorgimento e della Resistenza (menzionata in ideale continuità con il primo, quale “secondo Risorgimento”). 

Significativo il nesso tra europeismo e adesione alla visione atlantica. Ecco cosa scrive al riguardo Segni: “L'Italia ha dato e, a mio avviso, continuerà a dare la sua opera efficace al proseguimento di un' unità europea effettiva, sviluppando i germi essenziali di una comunità politica che sono contenuti nei trattati di Roma.” E prosegue così:“A questo punto, non esito ad affermare che tanto l’alleanza atlantica quanto l’Unione europea occidentale non solo non impediscono in alcun modo una politica distensiva, ma contribuiscono a realizzarla.”

Negli anni al Quirinale fu alle prese con i tentativi di nascita della coalizione di centrosinistra. Il 1963 fu l’anno delle elezioni a seguito delle quali ci fu, a opera di un primo tentativo di Aldo Moro, la formazione del governo Leone I, monocolore DC transitorio. Nel dicembre dello stesso anno Aldo Moro riuscì a formare un governo con PRI, PSDI e PSI, il primo governo di centrosinistra della storia italiana.  

Anni difficili: ombre estere ed interne

Nel messaggio agli italiani in occasione del Capodanno 1964, trasmesso in diretta radiotelevisiva dal palazzo del Quirinale il 31 dicembre 1963, Segni ricordò come fra gli «avvenimenti gravi e memorabili che hanno contrassegnato il corso del 1963» vi era stata la scomparsa di papa Giovanni XXIII e quella del presidente Kennedy, «due grandi fiamme che avevano illuminato a tutti la difficile via verso la pace nella libertà e nella giustizia: quella pace nella quale profondamente credevano e nella quale anche noi profondamente crediamo». 

Il 1964 fu l’ultimo della breve e travagliata presidenza, quando Segni rivelò di essere assai preoccupato per le conseguenze che la crisi economica avrebbe potuto produrre, in termini di destabilizzazione sociale.

Nelle more, aveva suscitato viva apprensione il fatto che il Capo dello Stato avesse ritenuto di consultare, oltre ai rappresentanti delle forze politiche, il generale De Lorenzo, Capo del Sifar e il gen. Aloia, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, per sapere se, in caso di ricorso anticipato alle urne, vi sarebbero stati dei pericoli per l’ordine pubblico, ricevendone ampie assicurazioni sull’inesistenza di qualsivoglia rischio di tumulti di piazza, in grado di mettere a repentaglio le istituzioni democratiche.

Andreotti, commemorandolo Segni nel 1991 (centenario dalla nascita), aiutò a capire meglio il delicato contesto di quello che molta pubblicista ha ricondotto al “Piano solo”. Per Andreotti il Presidente Segni ebbe la preoccupazione costante delle minacce incombenti dall’Est comunista e aveva invitato, conseguentemente, a curare le Forze Armate convenzionali, per scongiurare i rischi di una difesa atomica, prendendo a cuore il correlato aspetto dell’effettiva capacità dei Carabinieri a mantenere l’ordine interno, dietro le linee di un’eventuale resistenza militare avverso aggressioni esterne.

E, proseguì Andreotti, non andava dimenticato che la commistione tra comunismo interno e internazionale “non era allora fantasiosa”.

Il 7 agosto 1964, nel pieno di un’estate densa di emozioni per l’anziano statista, ebbe termine de facto, seppure non ancora de jure, il mandato di Segni, che – secondo allo scarno comunicato emesso dalla Presidenza della Repubblica - era stato improvvisamente colpito da “disturbi circolatori cerebrali”.

All’ictus seguì l’accertamento della sua condizione di “impedimento temporaneo”. Come da procedura assunse le funzioni il presidente del Senato Cesare Merzagora. Nonostante la gravità della condizione non si arrivò ad accertare la condizione di “impedimento permanente” che avrebbe comportato la decadenza dall’incarico e nuove elezioni. Risolse lui l’impasse con le dimissioni volontarie il 6 dicembre dello stesso anno. Divenne Senatore a vita di diritto e morì nel 1972 a 81 anni.

Coscienza di credente, rigore e  senso del dovere

Giovani Leone, da Capo dello Stato, volle ricordarlo nella circostanza dello scoprimento di un busto in onore dello scomparso: “Nella personalità di Antonio Segni –  disse - confluivano il rigore morale della sua coscienza di credente, la linearità di pensiero e azione del finissimo giurista, il vigore del suo carattere sardo, tutto ciò fuso ed armonizzato dalla consapevolezza che ogni servizio reso alla vita pubblica, deve essere illuminato esclusivamente dal senso del dovere”.

Crediamo pertanto, aggiungiamo noi, che non sia opera vana dare giusto risalto al ruolo di Segni come europeista convinto, lungimirante fautore del moderno sviluppo dell’agricoltura, sostenitore appassionato della solidarietà internazionale, difensore delle libertà entro un quadro internazionale di guerra fredda, soprattutto integerrimo servitore dello Stato, alieno da ogni personale, egoistico interesse. 

Franco Banchi