"Non mi piace nemmeno un poco la dichiarazione di quegli ex democristiani che quasi ogni giorno ritengono necessario assicurare che non intendono far risorgere il vecchio partito dello scudo crociato. Che bisogno c'è di dirlo? Di fatto l'affermazione così recisa - come una specie di giuramento antimodernista - assume un significato di censura ora per allora. Quasi si trattasse delle case Merlin". Avrei voluto esprimerlo io questo pensiero, invece pensieri e parole sono dell'inarrivabile Giulio Andreotti e furono scritte (per il quotidiano romano "Il Tempo") nel lontano 1998. Hanno dunque ventisei anni ma, per la loro perdurante attualità, paiono scritte ieri. 

Del resto “Andreotti è autenticamente colto, cioè di quelli che non credono che la cultura sia cominciata con la sociologia e finisca lì” riconosceva Indro Montanelli nel 1970. Ciò non ha impedito che negli anni si agitasse qualche polemica proprio contro Andreotti scrittore. Mentre escono le lettere del divo Giulio alla moglie Livia, raccolte dai figli e presentate la scorsa estate da Andrea Ruggieri (senza averle lette tutte; del resto anche Mario Giordano ha prefato il libro di Paragone avendone letto solo un capitolo), vengono alla mente i duri giudizi formulati da Marcello Veneziani nel 2020. Certamente lo statista romano non era santo de su devoción, tanto che in altra occasione egli scrisse che governava l’Italia come fosse lo Stato pontificio.

A suo avviso i ritratti condensati dal Presidente nei suoi Visti da vicino sono inguaribilmente “poveri di fatti, evasivi e minimalisti, scialbi e anche un po’sciatti nella prosa, neanche narrati in modo brillante, smentendo – aggiunge impietoso – la fama ironica e spiritosa di Andreotti”. Il giornalista-scrittore di Bisceglie concludeva assai severamente asserendo che nei personaggi da lui ritratti “non c’era il tragico, non c’era lo storico, non c’era neanche il grottesco”. Pure l’amico Karl Evver, se ben ricordo, avanzò critiche alla prosa andreottiana.

Nel 1989, invece, Andrea Barbato limitava le sue censure ad Andreotti scrittore (che allora era anche presidente del consiglio) alla sua America “vista da vicino”: avrebbe dovuto guardarla – osservava – un po’ più da lontano, “con un orizzonte più ampio, in panoramica”. Barbato riconosceva però che “papi e politici italiani, ministri e sottosegretari, economisti e capi di governo” ben si prestavano ad essere visti da vicino come faceva Andreotti, sopportando intatti la lente del miscroscopio e la miniatura del ritrattista. Era questo l’Andreotti valido scrittore che raccontava vicende vaticane, ritraeva personaggi di storia minore e tracciava il profilo di colleghi ed avversari politici, in libri – riconosceva Barbato – che diventavano sempre best seller e spesso finivano (beati loro!) circondati di importanti riconoscimenti e premi.

 

Ruggero Morghen