Quando il senatore e ministro Giovanni Marcora morì nel 1983 a soli sessant’anni, il presidente del Senato Francesco Cossiga venne a Milano per commemorarlo al teatro San Carlo. Erano intervenute molte centinaia di persone e tanti stavano in piedi per mancanza di posti. Cossiga iniziò il suo discorso con una frase che è certamente rimasta nella memoria di tutti i presenti. Disse: «Mentre venivo qui mi domandavo cosa avrei detto nel luogo dove lui aveva operato così bene per tutta la vita e mi chiedevo come avrei potuto non essere retorico di fronte ai suoi amici, a chi lo conosceva bene, ai suoi collaboratori, a chi aveva combattuto con lui per anni cambiando profondamente la natura della Democrazia Cristiana anche a livello nazionale. Ero confuso dalla retorica quando all’improvviso mi sentii esplodere nella mente la sua voce roca che mi diceva: ‘Francesco, non fare il pirla, ricordati che non ero Napoleone’».
Bisognerà aspettare l’ex allenatore dell’Inter Mourinho per sentire qualcosa di simile. Fu chiamato per tutta la vita «Albertino», nome di battaglia assunto come vicecomandante del raggruppamento divisione Fratelli Di Dio, due eroi della Resistenza uccisi dai nazisti. Il suo comandante era Eugenio Cefis futuro presidente dell’ENI e della Montedison. Zona di operazioni l’Ossola e il Mottarone, punto di appoggio la parrocchia di Lesa, retta da don Federico Mercalli, futuro vicario episcopale della diocesi di Novara e sacerdote che celebrò le nozze di Cefis e battezzò i figli di Marcora.
In vetta alla piramide del comando c’era Enrico Mattei, che fu il tesoriere della Resistenza e il comandante in capo di tutte le forze partigiane di ispirazione cristiana con il fazzoletto azzurro al collo. Tra gli uomini sotto il comando di Marcora ricordo Gian Angelo Mauri, mio amico personale, e Rino Pacchetti, medaglia d’oro della Resistenza, torturato dai nazisti e futuro capo della guardia personale di Enrico Mattei, presidente dell’ENI.
La Resistenza ha segnato dunque per sempre la vita di Marcora che, nato a Inveruno, figlio di contadini, rimase ben presto orfano di entrambi i genitori e allevato dalla zia, che lui chiamò per tutta la vita mamma. Fu uomo dotato di un forte carisma personale, un vero capo, e con notevoli capacità imprenditoriali.
De Gasperi e Mattei lo incaricarono di organizzare la sfilata della vittoria a Milano. In un primo tempo si dedicò all’autotrasporto tra Milano e Genova. Quando Fanfani diventò segretario della DC, Mattei, che stava creando un impero economico con l’aiuto di Cefis, su suggerimento di don Federico e dell’ingegner Gianmaria Capuani, futuro presidente della Camera di Commercio di Novara, decise di convocare Marcora perché́ desse vita nella DC a una corrente che coprisse lo spazio politico della sinistra degasperiana. Nel 1956 nacque a Belgirate la corrente di Base.
A fianco di Capuani e Marcora si schierarono ben presto due giovani studenti della Cattolica provenienti dal Sud, ossia Misasi e Ciriaco De Mita, ma anche Luigi Granelli, ex operaio della Dalmine, autodidatta, nonché́ le prime donne impegnate in politica nella DC, come Lidia Brisca Menapace, Tina Anselmi e Adriana Guerrini. Sin dall’inizio aderirono alla Base il bergamasco Rampa, Marchetti di Varese, Arnaud di Torino, Follini (padre) di Piacenza, De Poli di Treviso e tanti ex partigiani tutti futuri parlamentari e imprenditori di successo.
Dal 1956 agli inizi degli anni Sessanta la corrente di Marcora, che si collegò presto a Firenze con La Pira e Pistelli, a Bologna con Ardigò e Prodi e a Roma con Galloni e Sullo, crebbe fino a superare il 6% nazionale della DC e soprattutto conquistò la provincia di Milano, di cui Marcora divenne segretario provinciale. Dopo la morte di Mattei la Base subì̀ un trauma e perse il controllo di Milano, per riprenderlo a metà degli anni Sessanta, realizzando il primo esperimento di alleanza con i socialisti nell’amministrazione provinciale e comunale della città.
La vicenda fu duramente contestata dal mondo cattolico milanese e ci fu in particolare, alla fine degli anni Cinquanta, una dura polemica tra l’arcivescovo Montini, futuro Paolo VI, e Luigi Granelli, che per questo non ebbe il numero di preferenze necessario per essere eletto deputato. Quando Marcora tornò alla guida del partito a Milano capì che era necessario creare un gruppo dirigente dotato di un maggior livello culturale e tutto questo organizzò con la collaborazione determinante di chi scrive, che trovò in lui, oltre che una guida politica, un secondo padre, tanto che accettò volentieri di farmi da testimone di nozze.
Si creò un gruppo di giovani che sostenne la corrente sia in Lombardia sia nel resto d’Italia, soprattutto a Roma, dove si aprì una sede nazionale in via Uffici del Vicario. Alle elezioni del 1968 furono eletti una trentina di parlamentari della corrente, tra cui Beccaria, Gargani, Bianco, Granelli, De Mita e De Poli. Nel 1970 la corrente ebbe la forza di acquisire la presidenza della Lombardia con Piero Bassetti e importanti incarichi per Rino Golfari e Beppe Guzzetti, futuri presidenti della Regione.
La corrente superò il 10% nazionale e De Mita divenne vicesegretario nazionale della DC con la segreteria di Piccoli prima e di Forlani dopo. Anche Marcora per un brevissimo periodo fu vicesegretario nazionale con Fanfani, per poi ricoprire, all’inizio degli anni Settanta, il posto adatto a lui: il Ministero dell’Agricoltura che tenne per sette anni, riuscendo a essere il miglior ministro mai visto in quel settore.
Nel 1980 divenne ministro dell’Industria, pur conservando il ruolo di capo storico della corrente e, anche grazie a un’intelligente politica delle alleanze, si rivelò come la testa pensante della DC, tanto da portare nel 1982 Ciriaco De Mita alla segreteria nazionale del partito e Francesco Cossiga, che da tempo era entrato nella corrente di Base, alla presidenza del Consiglio prima e poi a quella del Senato. Marcora era un punto di forza per quanto riguardava le necessità economiche della sua corrente in tutta Italia, nonché́ del partito laddove c’erano basisti alla guida della DC sul territorio.
Aveva dato vita anche a un’agenzia giornalistica nazionale chiamata Radar, con sede a Roma e diretta da un intellettuale, autore di numerosi libri e pubblicazioni, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente, Giovanni Di Capua. La sua principale fonte di approvvigionamento economico era ovviamente il «cane a sei zampe», ossia l’ENI. Perché́ non ci siano equivoci di alcun genere su come Marcora conciliasse la raccolta dei mezzi necessari per la politica con l’attività̀ politica stessa, è utile ricordare che in un grande convegno, presenti centinaia di dirigenti della corrente di Base della Lombardia, si rivolse a un membro dell’assemblea che doveva lasciare un incarico per acquisirne uno più̀ importante dicendogli: «Mi raccomando, per il mestiere che fai sei abituato a rubare sul gasolio, ma questo non lo puoi fare nella banca dove andrai».
Quando, molti anni dopo la morte di Mattei, divenne presidente dell’ENI il marchigiano Girotti, mi capitò di scambiare qualche parola con un autorevole marchigiano, l’onorevole Forlani, e gli dissi: «Adesso con Girotti sei sicuramente più̀ forte nell’ENI». «Eh no», mi rispose Forlani, «sull’ENI si protende più̀ che mai la lunga ombra del ministro Marcora.»
In effetti Marcora ricavava da questi autorevoli contatti la concessione di molte pompe di benzina che gestiva in proprio o affittava, procurandosi così quella liquidità che in buona parte veniva investita nella politica. Quando fu approvato il finanziamento pubblico dei partiti con una legge che Marcora non aveva per nulla gradito, si incontrò con me per invitarmi a studiare qualcosa di nuovo, perché́ secondo lui la legge non risolveva il problema, come dimostrerà̀ poi Tangentopoli. Marcora non voleva violare tale legge per poter dormire tranquillo.
Dopo tanti scambi di idee, giungemmo alla soluzione che occorresse mettere in piedi qualcosa di simile a quello che avevano fatto i comunisti con le cooperative rosse. Fu questa la ragione per cui, pur continuando a occuparmi del partito, impiegai tutte le mie energie per dar vita a un grande consorzio cooperativo edilizio di cui fui presidente per qualche anno. Va notato che, mentre il PCI era unito e coeso e quello che decideva il segretario nazionale del partito veniva attuato pronta- mente ovunque, nella DC la presenza di correnti di ogni genere creava problemi concorrenziali interni, per cui i democristiani, invece di aiutarsi, si ostacolavano l’un l’altro.
Questo spiega sia il fallimento delle cooperative dell’onorevole Franco Verga, sia in parte di quelle che facevano riferimento a me e alle ACLI nelle altre zone del Paese. Marcora era estremamente contrario, nell’ambito della spartizione degli enti a livello nazionale, a cedere l’ENI al PSI, e riuscì̀ a inserire un membro della sua corrente nel consiglio di amministrazione di tale ente: il giovane Gianni dell’Orto, che io stesso gli avevo presentato anni prima. Comunque, il destino cinico non favorì Marcora.
Infatti, De Mita divenne segretario del partito e Craxi iniziava la sua breve marcia verso la guida del Paese, mentre lui cominciava a manifestare i segni della grave malattia che lo aveva colpito. Non ebbe quindi più̀ la forza di lottare contemporaneamente contro De Mita e Craxi. Si preoccupò, comunque, che l’ex onorevole De Poli arrivasse alla presidenza dell’ente Cellulosa, carica che poi lasciò per assumere la presidenza di una grande fondazione bancaria, cedendo il posto a Giovanni Di Capua, indicato pure da Marcora. Rognoni, un altro basista, andava a occupare il Ministero degli Interni lasciato vacante da Cossiga, che diventava presidente del Senato, e Galloni infine veniva nominato vicepresidente del CSM.
Come si vede, si verificava quello che tante volte il leader aveva immaginato: la sinistra di Base avrebbe acquisito nella DC un potere senza precedenti. Se fosse vissuto avrebbe anche impedito a Goria di liquidare la Federconsorzi, errore le cui ripercussioni gravano ancora oggi sul nostro Paese. Fra l’altro era uno dei pochi leader politici disponibili al ricambio generazionale; un aspetto questo a cui molti altri eminenti esponenti della DC erano poco sensibili.
A tale proposito ricordo un episodio che ebbe come protagonista Siro Brondoni, già direttore del Popolo Lombardo e presidente dell’UNURI (Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana). Durante una riunione della direzione provinciale presieduta da Marcora, in cui si discuteva per l’inserimento di alcuni nominativi fra i candidati dell’elezione del 1968, Brondoni ricordò ciò che Lal Bahadur Shastri, succeduto a Nehru, dopo la sua morte, nella carica di primo ministro della Repubblica Indiana, rispose ai giornalisti che gli chiedevano da dove fosse spuntato, dal momento che non avevano mai udito il suo nome. Shastri rispose pressappoco così: «Gli uomini di potere sono come gli alberi dalla grande chioma sotto la cui ombra non cresce nulla. Io sono sbucato fuori solo ora perché́ ho avuto l’audacia di arrampicarmi sull’albero».
Marcora non era un moralista, ma era impregnato di una forte componente di moralità̀ cristiana tradizionale derivante dal mondo contadino. Viveva veramente i problemi di quelli vicini a lui e non usava «a vanvera» la parola amico. Mi ricordo benissimo di quando, appena tornato da Bruxelles, venne a riferirci che l’assessore di Firenze Remo Giannelli, direttore di Politica, era stato accusato di corruzione e arrestato in relazione alla costruzione di un forno di incenerimento.
Nel darci la notizia aveva gli occhi gonfi di pianto e ci ricordava che Giannelli era una persona per bene, probabilmente caduto nelle mani di qualche furbacchione che aveva approfittato della sua buona fede. Marcora avvertiva che si stava avvicinando un periodo buio, in cui i politici avrebbero corso molti rischi, sia a causa della furbizia di certi imprenditori sia dei pesanti interventi della magistratura.
Concluse dicendoci che, se qualcosa del genere fosse accaduto a lui, noi dovevamo sapere che tutto quello che aveva fatto era stato finalizzato agli interessi della corrente e del partito e che per lui era importante che noi manifestassimo la nostra solidarietà̀. Quando, non molto tempo dopo, venne il momento della scarcerazione di Giannelli, Marcora gli fece trovare davanti alle porte del carcere una sua vettura con autista e con a bordo l’intera famiglia.
La macchina si diresse verso Bedonia, la nota tenuta agricola che Marcora aveva nel parmense, e ospitò tutta la famiglia Giannelli per un certo periodo. È noto che Marcora era solito ospitare a Bedonia anche i suoi colleghi europei, ministri dell’Agricoltura, ai quali mostrava con orgoglio le sue mandrie di mucche pezzate o brunalpine. Più passa il tempo e più̀ la gente che ne ha semplicemente sentito parlare chiede notizie sul ruolo che Marcora ha avuto nella vita politica italiana. Oltre che per l’abilità, competenza e concretezza mostrate nella gestione del Ministero dell’Agricoltura e dell’Industria, va ricordato per la legge Marcora sull’obiezione di coscienza, alla quale anche il sottoscritto diede un importante contributo, e per la legge Gozzini, riguardante il trattamento dei detenuti nelle carceri.
Un’altra legge da lui voluta è quella tesa ad agevolare le cooperative nei vari settori produttivi, legge più̀ volte modificata, ma tuttora in vigore. Marcora, memore della sua esperienza nella Resistenza, non condivideva l’idea di De Mita che si potesse dar vita a un Patto costituzionale con i comunisti. Mi aveva raccontato che almeno in due circostanze, durante la Resistenza, i partigiani comunisti avevano cercato di eliminarlo fisicamente. Da qui la sua giustificata diffidenza nei confronti dei comunisti.
Purtroppo, la persona delegata a polemizzare con il leader campano su tali problemi ero proprio io, e in tal modo non mi conquistai certo la simpatia di De Mita, destinato a diventare il futuro segretario nazionale della DC. Marcora scrisse anche tre lettere al presidente del Consiglio Cossiga nelle quali, sia pure in modo garbato, criticava la politica economica sul lavoro del suo governo. Secondo lui si stava esagerando nel fare una politica tesa a garantire i posti di lavoro già̀ esistenti, rinunciando a una politica di crescita globale.
Il buon senso, infatti, suggeriva che, il giorno in cui in Italia ci fossero stati cinquanta milioni di assistiti, nessuno avrebbe potuto mantenerli a meno di non fare invadere l’Italia dalla Svizzera o dalla Germania. Nell’ultima lettera annunciava le sue dimissioni da ministro, ma Cossiga riuscì̀ a dissuaderlo.
Marcora, come Mosè, non poté́ però entrare nella terra promessa. Infatti, quasi sicuramente sarebbe diventato segretario nazionale della DC o presidente del Consiglio. Afflitto da alcuni anni da un tumore, pochi mesi dopo la morte di don Federico, ai primi di febbraio del 1983, a sessant’anni appena compiuti, morì. Ai suoi funerali la chiesa di Inveruno era piena all’inverosimile di tante persone che si erano legate a lui; in un angolo mi ricordo di aver visto piangere Donat-Cattin, il duro che aveva litigato tanto e tante volte con lui.
Nell’editoriale dedicato alla sua morte, Montanelli concluse così: «Già̀ ridotta al lumicino come qualità̀ e quantità̀ di effettivi, la classe politica del Nord perde con Marcora uno dei maggiori protagonisti e forse il più̀ difficile da sostituire. Non vedo infatti chi possa riempire il vuoto che egli lascia. Non solo nella DC, ma anche negli altri partiti, dei Marcora si è perso lo stampo. Di un personaggio politico che muore è raro poter dire: ‘Era un uomo’, di Marcora è impossibile dire altro».
Io che lo conoscevo molto più̀ di Montanelli, non posso che associarmi pienamente al suo intelligente commento. Ho ancora vivo il ricordo di Marcora mentre sedevamo a un tavolo per una frettolosa colazione. Terminato il piccolo pasto, Marcora si accese una sigaretta, ma all’improvviso la spense dicendo: «Che sciocco, mi ero dimenticato che siamo in Quaresima».
Ezio Cartotto*
*Pagine tratte dal libro di Ezio Cartotto: Gli uomini che fecero la Repubblica - L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il senso della politica nell’Italia di oggi - 2012 Sperling & Kupfer- su gentile autorizzazione di Elena Cartotto.