Ci siamo conosciuti a Pavia nel 1957. Avevamo solo undici anni di differenza, lui nato il cinque agosto 1924, io il primo agosto 1935; lui ghisleriano negli anni 1946-47; io negli anni 1955-59. Ma, nel 1957, io ero un giovane studente universitario mentre lui era già docente di procedura civile, un giovane ma già autorevole docente, allievo del famoso Enrico Tullio Liebman. Devo anche al buon voto che meritai all’esame di procedura civile con il professor Rognoni se riuscii a riportare la media dei miei voti al livello richiesto per non essere cacciato dal Ghislieri, che era stata pregiudicata da un pessimo e ingiusto ventuno in diritto civile.
Si aggiunse così un sentimento di riconoscenza alla stima e ammirazione che già avevo per la sua figura, per il suo stile, il suo equilibrio, il suo iniziale ma già ben visibile impegno pubblico che faceva seguito alle prime attività antifasciste realizzate prima della fine della guerra e del regime. Era per me un modello.
Dopo la laurea (1959) io lasciai Pavia per Monaco di Baviera, Roma, Milano, non senza mai recidere i legami con Pavia alla quale mi ero molto affezionato e con i magnifici quattro anni trascorsi nella sua Università e nel Ghislieri. Pavia aveva segnato il mio primo distacco da Brescia ma anche la contestuale scoperta di una per me nuova città lombarda che divenne rapidamente assai importante per me. Fu amore a prima vista con questa “città fluviale” e del “silenzio” “incavernata in fondo alla Lombardia”, come la definì il suo massimo cantore, il sacerdote poeta, Cesare Angelini, che mi aprì gli occhi anche alla comprensione del grande fascino, naturalistico ma anche culturale della pianura.
Quante volte, nei decenni successivi, vissuti a Milano, ho sentito il bisogno di prendere la macchina e di calarmi a Pavia, solo per la gioia di passeggiare, da solo, lungo le sue viuzze medioevali e sul lungo Ticino, soffermandomi davanti a San Michele, ai collegi storici Ghislieri e Borromeo e all’antica Università, grandi testimonianze del tempo profondo e della continuità, pur nella capacità di evolvere.
Mi soffermo su Pavia anche perché Virginio Rognoni amava profondamente Pavia e, pur attratto dai crescenti doveri politici a Roma, mai pensò di lasciare Pavia. Anzi il suo legame con Pavia divenne ancora più profondo quando con la moglie Giancarla ricuperò una casa – cascina a Cà della Terra, trasformandola in una tipica dimora della campagna pavese, al limite della città ma già campagna. Una dimora moderna ma classica, dolcissima, accogliente.
A onor del vero fu la moglie Giancarla, bresciana, la creatrice della dimora di Cà della Terra. Fu lei a donarle lo spirito e lo stile e a dotarla di un bellissimo e commovente giardino. E’ stato Rognoni insieme ad Angelini ed a Cà della Terra a farmi capire a fondo la bellezza intima di Pavia e la profondità della sua civiltà.
Rognoni, dopo un lungo impegno pubblico al Comune di Pavia dal 1964 al 1967, fu attratto dalla politica nazionale venendo eletto deputato alla Camera nel 1968 dove rimase per 7 legislature sino al 1994 e assumendo responsabilità governative sempre più importanti. Per questo nel decennio 68-78 le nostre frequentazioni non furono intense ma rimasero vive grazie ai rapporti con la famiglia e con i figli che crescevano parallelamente con i nostri.
E fu proprio grazie ad una vicenda legata a suo figlio Vincenzo, coetaneo di mio figlio Luca, che io riconobbi veramente chi era Virginio Rognoni. L’evento avvenne in un campetto di calcio di un oratorio alla periferia di Pavia nel giugno 1978. Entrambi appassionati di calcio avevamo organizzato una partita tra le squadrette delle classi medie dei rispettivi figli. Noi scendemmo da Milano con un pulmino, loro giocavano in casa. Era in corso l’accanita partita quando Rognoni venne chiamato al telefono.
Quando ritornò poco dopo mi sembrò cambiato, con uno sguardo profondo, lontano, deciso, impegnato. “Mi hanno chiesto di assumere la responsabilità di Ministro degli Interni” mi disse a mezza voce. Dopo le dimissioni di Francesco Cossiga da Ministro degli Interni come conseguenza dell’assassinio di Aldo Moro, la carica di Ministro degli Interni spaventava. Eravamo al culmine della lotta armata e della violenza terrorista (i cosiddetti anni di piombo). Toccava a lui, vicepresidente della Camera dal 1976.
Fu in quel preciso momento che capii veramente chi era Rognoni. Dietro la sua cortesia e quasi bonomia c’era un uomo d’acciaio, dal coraggio e dalla determinazione straordinari. Un combattente che non si faceva spaventare dalla lotta ma che avrebbe condotto la sua battaglia con grande determinazione, con una fedeltà assoluta con i suoi principi che erano quelli della democrazia e della Costituzione.
E così è stato nei cinque anni in cui è stato Minitro degli Interni (1978-1983). In quei cinque anni terribili, nonostante il suo crescente impegno, le nostre frequentazioni, a Cà della Terra, aumentarono ed ebbi così modo di apprezzare da vicino la sua grande e lucida forza d’animo, il suo grande impegno. Allora in Italia al Ministero degli Interni contavano più di 200 organizzazioni terroristiche attive e nel 1979 fu registrata la cifra record di 659 attentati.
E ciò può spiegare perché, allora, molti uomini politici importanti (tra i quali ricordo Ugo La Malfa) chiedevano misure di contrasto al terrorismo eccezionali, anche in deroga alle norme ed alla tutela giudicate ordinarie. Rognoni prese misure e ottenne risultati importanti ma si rifiutò di prendere misure eccezionali. Fu sua l’idea di un gruppo interforze specificamente dedicato alla lotta al terrorismo alla cui guida chiamò il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa che, nella qualità di “coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo”, rispondeva direttamente al ministro Rognoni.
Fu sua, tra le riforme più significative, quella della smilitarizzazione della Polizia di Stato nel 1981 della quale si pose in risalto l’“organicità globale della Amministrazione della Pubblica Sicurezza alle dipendenze dirette dell’autorità politica, al di fuori, quindi, di ogni sospetto di corpo separato”. E quando l’attenzione si rivolse maggiormente al contrasto della criminalità organizzata, fu Rognoni nel 1982, il promotore, insieme a Pio La Torre, della fondamentale legge Rognoni-La Torre del 13 settembre 1982.
La Torre fu assassinato dalla mafia nell’aprile 1982 e Dalla Chiesa cadde vittima della mafia, insieme alla giovane moglie, cento giorni dopo la sua nomina da Rognoni a Prefetto di Palermo, nel quadro dei programmi di contrasto alla mafia. Furono passaggi e vicende difficili e dolorosissime e posso testimoniare la sua grande tristezza, ma mai vidi Rognoni vacillare nella sua fede nella democrazia e nella sua profonda fiducia che la democrazia, il diritto, il popolo italiano, le forze dell’ordine, la magistratura ordinaria, la Costituzione, avevano la forza di resistere e battere sul campo sia il terrorismo che la criminalità organizzata. Fu questa fede e questa fiducia e la serena forza che da esse emanava il segreto della sua e della nostra resistenza in quegli anni terribili.
Dopo la cessazione delle responsabilità come Ministro degli Interni, Rognoni ebbe altri importanti incarichi tra i quali: Ministro di Grazia e Giustizia (1986-87), Ministro della Difesa (1990-92), componente del Consiglio superiore della magistratura e vice-presidente della stessa (2002-2006). In ognuna di queste attività ha fatto cose sempre significative, ben riassunte nelle condoglianze e nel commiato che dopo la sua morte (notte del 20 settembre 2022) il vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura, David Ermini, pronunciò con parole che meritano di essere ricordate: “Un galantuomo, un democratico, un europeista, un uomo delle istituzioni”. E’ stato studioso e giurista insigne e politico appassionato e autorevole. Rognoni è stato un uomo dall’altissimo senso dello Stato che ha saputo guidare il CSM con equilibrio e saggezza in anni di forte tensione tra politica e magistratura”. La sua è stata una figura pubblica di primissimo piano nella storia repubblicana, e il suo nome sarà per sempre ricordato grazie alla legge, firmata con Pio La Torre, che introdusse il reato di associazione di tipo mafioso e il sequestro e la confisca dei beni delle organizzazioni criminali”.
Ma il suo lascito più importante, il suo imperituro monumento restano la sua fede e la sua fiducia nella democrazia e nella Costituzione. Non democrazia e Costituzione generiche ma quelle che scaturivano dalle sofferenze e dalle lotte per la libertà del popolo italiano. Giustamente la motivazione del premio Ghislieri alla carriera che gli fu assegnato nell’ottobre 2015 ricorda che: “L’impegno politico di Rognoni non si è però esaurito nel solo agone parlamentare e governativo. Si è anzi distinto peer un continuo richiamo a valori che l’esperienza antifascista giovanile aveva fortemente radicato in lui. Pochissimi mesi fa, intervenendo a una celebrazione locale peer il 25 aprile, dinanzi a una platea di giovani aveva ribadito che “l’antifascismo che noi celebriamo oggi è la democrazia”, la democrazia trova nell’antifascismo un sostegno, una sorta di ossigeno”. Fra i suoi numerosi interventi riguardo all’attualità politica e giuridica dell’Italia, segnaliamo una interessante considerazione riguardo all’autonomia della magistratura ospitata, come molti suoi scritti, dal Corriere della Sera”.
Quando nel 2006 cessò la sua ultima attività pubblica al CSM, la sua maggior presenza riattivò Cà della Terra come luogo di incontri e di riflessioni, incontri animati dalla sua sempre lucidissima ed informata intelligenza e frequentata da persone per bene e di grande qualità.
Negli ultimi anni quando non ci furono più incontri di gruppo e lui rimase solo fui io che cercavo di incontrarlo a Cà della Terra in incontri personali, perché avevo bisogno più di sempre del suo pensiero sulle difficili vicende politiche del nostro paese, avevo bisogno della sua guida intellettuale. Ma anche in questi colloqui personali, con i quali cercavamo di capire cosa stesse succedendo nel nostro Paese, Rognoni cercava di essere positivo, vedere il bicchiere mezzo pieno e di domandarsi che cosa potessimo fare per contribuire a riempirlo.
Aveva pensato di poter contribuire all’Ulivo come uno dei dodici saggi chiamati a scrivere il Manifesto del Partito Democratico e come Presidente del Collegio dei garanti del Partito Democratico ha affermato che “La storia dei cattolici democratici è legata, con i suoi valori alla comprensione della laicità della politica, al gioco della libertà e al dovere della giustizia., Questa coscienza i cattolici l’hanno trovata nel PD” (Corriere della Sera 7 novembre 2009).
E questo fu, forse, il suo unico errore politico in tanti anni di colloqui. Riponeva molte speranze nel PD e credeva nel conferimento nel PD dei grandi principi cattolici di stampo sturziano che Martinazzoli aveva cercato di rievocare nel 1994 con il nuovo Partito Popolare Italiano al quale Rognoni aveva aderito. Ma si sbagliava.
Nel suo commovente funerale del 23 settembre 2022 nella Chiesa di Santa Maria del Carmine notai che al di là dei meritati omaggi istituzionali e degli amici di sempre, premeva il popolo pavese che non aveva nessun motivo di essere presente se non quello di testimoniare il suo affetto e la sua riconoscenza ad un grande leader politico e civile che aveva tanto fatto per la sua città e per l’Italia tutta.
E ho rivolto un ringraziamento a chi lo aveva chiamato dolcemente a sé, nella notte del 20 settembre in piena lucidità e senza sofferenze, chiamandolo in tempo per impedirgli di vedere il dissesto in atto dei valori democratici e costituzionali che sono stati, per tutta la vita, la sua bussola, la sua speranza e il suo lascito per noi più importante.
Marco Vitale