4. LA SECONDA GUERRA MONDIALE E IL TRATTATO DI PACE
Tra la Prima e la Seconda guerra mondiale gli stati europei vissero un clima di estrema instabilità con conflitti politici interni, difficoltà nei rapporti internazionali e una crisi permanente sia sul piano sociale che su quello economico. Questa situazione derivava sia dalla difficile condizione economica in cui versavano le comunità ma anche diretta conseguenza del modo in cui erano stati affrontati i trattati di pace della Prima guerra mondiale.
A dispetto degli ideali wilsoniani, le nazioni vincitrici avevano infatti imposto una pace punitiva alla Germania e all’Austria con riparazioni di guerra estremamente onerose. Riparazioni inattuabili e insostenibili soprattutto dalla Germania che provocarono un’instabilità ulteriore nei
rapporti internazionali e i debiti degli alleati con l’America non fecero che alimentare le rivendicazioni sugli stati vinti. L'ascesa bolscevica in Russia portava alla chiusura istituzionale dell’occidente nel tentativo di arginare il pericolo comunista in espansione.
Lo scenario dell’epoca vide un fiorire di regimi dittatoriali: il fascismo in Italia fu tra i primi e venne preso anche come esempio nelle politiche governative di altri stati europei, in Bulgaria vi fu l’instaurazione di regimi militari a seguito di colpi di stato, in Spagna la debole monarchia cedette il passo ad una fase repubblicana e ad una successiva presa di potere dittatoriale da parte di de Rivera attraverso un direttorio militare.
Anche in Portogallo si instaurò una rivoluzione militare e filofascista, stessa sorte avvenne in Grecia con Metaxas e anche l’est europeo vide la nascita di alcuni regimi dittatoriali, come in Romania, Jugoslavia, Estonia, Lituania e Albania. In questo contesto qualche tentativo di mantenere una situazione di pacifica collaborazione internazionale ci fu come nel caso degli accordi di Locarno del 1925 che, con l’intento politico internazionale di mantenere la pace tra gli stati, si ottenne l’inserimento della Germania nella Società delle Nazioni ma non si riuscì a risolvere il quadro complesso instauratosi a seguito dei trattati di pace.
L’evoluzione sociale e politica della Germania, negli anni seguenti alla Prima guerra mondiale, rappresenta il tema centrale per lo scenario che portò agli sviluppi bellici successivi. In Germania, anche sfruttando la crisi economica del 1929, si fece strada il movimento nazista su un terreno politico interno reso molto fragile dopo la scomparsa di Gustav Stresemann, l’uomo che aveva permesso alla Germania di essere ammessa alla Società delle Nazioni.
La crisi politico-sociale della Repubblica di Weimar permise alle forze conservatrici di affermarsi e in particolare Hitler iniziò a conseguire, con il suo movimento nazionalsocialista, importanti e repentini riscontri elettorali. La sua guida carismatica, la rigida impostazione del partito, la costituzione di forze paramilitari a sua disposizione come le SA e le SS e la propaganda affidata a Joseph Goebbels permisero al nazismo di conquistare ampie fette di consensi sia nel mondo lavorativo, sia nella società tedesca.
Hitler puntò molto sul riscatto patriottico e sull’aperta e dichiarata contestazione a quanto impostato negli accordi di pace, con ciò riscontrando un grande favore dalla popolazione. Le politiche economiche rafforzarono la sua credibilità interna in quanto vi fu un progressivo miglioramento delle performance dell’economia tedesca raggiungendo nel 1939 l’obiettivo della piena occupazione.
Altro elemento caratterizzante il periodo tra le due guerre è la situazione spagnola con lo scoppio nel 1936 della guerra civile che rappresentò una prova generale della Seconda guerra mondiale. In questa crisi si contrapposero le forze nazionaliste contro le forze del governo legittimo della Repubblica Spagnola composta da una coalizione di partiti democratici.
Il colpo di stato avviato dalle forze nazionaliste guidate da una giunta militare che si rifaceva al sistema fascista e nazista poté contare anche sull’aiuto di Italia e Germania. Gli altri Stati, in particolare Francia e Inghilterra, adottarono una politica più attendista che indirettamente favorì i nazionalisti mentre la Russia si attivò per fornire armi alla parte repubblicana. La fine della guerra civile diede inizio alla lunga dittatura oppressiva di stampo fascista del generale Franco.
L’avvio delle ostilità della Seconda guerra mondiale avvenne il 1° settembre del 1939 quando Hitler invase la Polonia e il 3 settembre, gli alleati Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Germania. Il patto Ribbentrop - Molotov firmato nell’agosto del 1939 che trattava la non aggressione tra Germania e Urss, permise una spartizione tra le due potenze del territorio polacco ed inoltre i due stati agirono anche nei confronti della Finlandia con l’occupazione Russa e a seguire l’invasione tedesca della Danimarca e della Norvegia.
Il 14 giugno 1940 i tedeschi occuparono Parigi e assunse il potere il vecchio maresciallo Pétain, eroe della Prima guerra mondiale che firmò un armistizio che divise la Francia in due parti: la parte settentrionale sotto diretta amministrazione tedesca e la parte meridionale, la cosiddetta Repubblica di Vichy, sotto la presidenza dello stesso Pétain, filofascista e al servizio della Germania nazista.
Mussolini entrò in guerra nel momento dell’invasione tedesca della Francia in quanto convinto che ci fossero le condizioni di una guerra lampo che gli permettesse di sedersi, senza grossi problemi, dalla parte dei vincitori al tavolo delle trattative post belliche.
Dopo l’entrata in guerra, Mussolini decise di optare per una linea interventista in particolare nei balcani e nel nord africa. In entrambi i casi, ma in particolare nelle campagne di Jugoslavia e Grecia, fu solo grazie all’apporto decisivo di Hitler che ottenne risultati positivi rafforzando così la sudditanza italiana nei confronti della Germania. Nonostante il patto Molotov, le vicende della guerra in corso acuirono la storica contrapposizione tra Germania e Unione Sovietica e fu inevitabile un confronto diretto tra i due nemici ed ex alleati, che poco più di un anno prima si erano spartiti l'Europa orientale.
Alla fine del giugno 1941, Hitler volle procedere all’invasione sovietica per vincere rapidamente con le armi lo scontro ideologico e aprirsi la via all'espansione incondizionata ad est e per la cosiddetta “operazione Barbarossa” si avvalse anche dell’aiuto di Mussolini. L’offensiva tedesca riuscì a dilagare all’interno dei confini sovietici e proseguì per tutta l’estate con grande successo attraverso le regioni baltiche a nord, e a sud attraverso il Caucaso e l’Ucraina trovando le popolazioni disponibili a collaborare contro i Russi.
I tedeschi tentarono poi la conquista della città di Leningrado, che resistette eroicamente all’assedio per due anni e mezzo, era la prima volta che l’esercito tedesco era stato fermato dalla resistenza russa. Dal 1942, con il Generale Georgij Zukov, l’esercito sovietico iniziò la controffensiva e tra la fine del ’42 e l’inizio del 43, si combatté una durissima battaglia che vide la sconfitta della VI armata del generale tedesco Von Paulus, che fu costretto alla ritirata.
Nel 1941 entrò in guerra anche l’America dopo che il Giappone, alleato dei tedeschi, bombardò la base navale di Pearl Harbor. A metà del 1942 il Giappone dominava su quasi tutta l’area del Pacifico ma in estate iniziò la controffensiva americana, che sconfisse i giapponesi nelle battaglie aeronavali di Midway e Guadalcanal.
Nell’ottobre del 1942, nel complesso contesto nord-africano, l’esercito inglese guidato dal generale Montgomery scatenò una controffensiva che travolse l’esercito italo-tedesco in Egitto nella battaglia di El Alamein che assunse anche un grande valore simbolico perché si svolse nel cuore del dominio nazi-fascista e si concluse con una gravissima sconfitta per il beniamino nazista Erwin Rommel.
Nel gennaio del 1943 si svolse la conferenza di Casablanca, in Marocco, dove gli alleati firmatari del patto delle Nazioni Unite si impegnarono a tener fede alla Carta atlantica, e decisero che la Seconda guerra mondiale sarebbe continuata fino alla resa incondizionata della Germania. In Italia la frattura tra fascismo e popolazione, dovuta ai grandi sacrifici richiesti per la guerra e all’insoddisfazione sulla sua gestione, e grazie al lavoro fondamentale delle forze della resistenza, rese agevole lo sbarco alleato in Sicilia per un’azione progressiva verso il nord Italia.
Il 25 luglio 1943 in una seduta del Gran consiglio del Fascismo, Benito Mussolini fu sfiduciato e il Re assegnò l’incarico di governo a Badoglio che, il 3 settembre, firmò un armistizio con gli alleati che venne comunicato solo l’8 settembre ingenerando una fase molto confusa e complessa sia nella popolazione che nelle forze armate con il crollo dello stato e la fuga verso sud del Re e di Badoglio.
Il 13 ottobre 1943, dalla Puglia il generale Badoglio dichiarò guerra alla Germania come Stato cobelligerante. Mussolini venne liberato dai tedeschi nel settembre 1943 e con l’appoggio di Hitler costituì uno stato fascista nell’Italia settentrionale con capitale a Salò sul lago di Garda, la Repubblica sociale Italiana (RSI), sotto il reale controllo delle truppe tedesche.
Tra il 1943 e il 1944 i sovietici, al costo di enormi sacrifici, respinsero i tedeschi ed iniziarono ad avanzare verso occidente e durante la conferenza di Teheran del 1943 i leader alleati si accordarono per sbarcare sulle coste della Francia, in Normandia con il risultato di stroncare le difese tedesche e liberare Parigi nell’agosto 1943.
Nell’autunno del 1944 i fronti della Seconda guerra mondiale erano radicalmente mutati, i paesi sotto l’influenza tedesca come Romania, Bulgaria, Finlandia e Ungheria, cambiavano schieramento o si arrendevano, mentre la Jugoslavia veniva liberata dai partigiani e dai russi, la Grecia dagli inglesi.
La Germania era sotto un incessante bombardamento alleato e nel gennaio 1945, dopo un’ultima azione offensiva tedesca nelle Ardenne, i sovietici oltrepassano la Polonia e arrivarono alle porte di Berlino, mentre gli alleati attaccarono dal fronte francese attraversando il Reno. In Italia il 25 aprile 1945 un’insurrezione popolare nelle principali città del Nord, guidata dal CNL (Comitato di Liberazione Nazionale), obbligò i tedeschi alla resa e Mussolini tentò di rifugiarsi in Svizzera travestito da soldato tedesco, ma venne catturato, fucilato dai partigiani ed esposto a piazzale Loreto a Milano.
Hitler, il 30 aprile si sparò un colpo di revolver alle tempie nel proprio bunker a Berlino e il Reich non poté che chiedere la resa agli alleati. Il 7 maggio del 1945 a Reims si firmò la capitolazione dell’esercito tedesco e le ostilità cessarono formalmente nei due giorni successivi.
L’annientamento nazista non concluse la guerra in quanto il Giappone opponeva strenua difesa e orgogliosa resistenza e in questo contesto gli USA decisero quindi l’utilizzo della bomba atomica e lo sgancio avvenne il 6 agosto 1945 a Hiroshima e il 9 agosto su Nagasaki e il 2 settembre 1945 il Giappone firmò la resa.
Durante il drammatico periodo della Seconda guerra mondiale Alcide De Gasperi si prodigò in modo cauto e riservato nel tentativo di mantenere accesa la speranza di superare l’esperienza fascista e ridare dignità e contenuti alla politica cattolica in Italia. Con incontri clandestini De Gasperi assieme a molti ex popolari e al gruppo neoguelfo (gruppo cattolico clandestino militante contro il fascismo) coordinato da Piero Malvestiti, impostarono le basi per la costituzione politica della Democrazia Cristiana. “Anche se non è possibile indicare una data di nascita della DC, già nel 1942, secondo la ricostruzione di Spataro e di Andreotti, De Gasperi, la cui leadership era da tutti riconosciuta, assumeva la presidenza della Commissione direttiva centrale provvisoria del partito”.
Si avviò quindi un processo di partecipazione e costituzione che lasciò ampio spazio alle capacità programmatiche e di sintesi di De Gasperi che si concentrò principalmente sul necessario riscatto morale del paese che potesse comunque avvenire in un contesto democratico e di salvaguardia delle libertà. Rafforzò inoltre in quel periodo la sua convinzione, aiutato da altri pensatori dell’epoca, che andava superata la concezione che i confini territoriali degli stati fossero un’arma a difesa dei popoli ma che al contrario si fossero dimostrati solo una debolezza.
Il tema principale era come superare questa concezione e come costruire una struttura federale che permettesse la democratica convivenza delle nazioni e De Gasperi da uomo di confine riuscì a sviluppare nel tempo questo disegno. Dopo la sua nomina come Ministro senza portafoglio nel primo Governo Bonomi, dal dicembre 1944 al dicembre 1945 nei Governi Bonomi e Parri assunse il ruolo di Ministro degli esteri convinto dell’estrema importanza del ruolo internazionale che doveva assumere l’Italia.
Il 10 dicembre 1945 De Gasperi costituì il suo primo governo assieme ai partiti che avevano preso parte al CLN: Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Partito Liberale Italiano, Partito d'Azione e Partito Democratico del Lavoro. Un lavoro difficile per il primo Governo De Gasperi che, in un completo isolamento sul piano internazionale a causa della guerra, doveva agire sia sul piano interno che sulla politica estera per ricucire quel tessuto sociale così duramente uscito dal ventennio fascista.
Il popolo italiano aveva necessità di una guida democratica e di una indispensabile opera ricostruttiva delle infrastrutture e delle realtà economiche ed imprenditoriali. “Quanto ai contenuti, è possibile ravvisare sin dai primi atti di De Gasperi una linea intesa a costruire un nuovo ordine europeo e internazionale basato sulla giustizia e sulla solidarietà, a partire dall’applicazione dei nuovi trattati di pace dei grandi principi wilsoniani e roosveltiani al fine di ricomporre sin dall’immediato dopo guerra il dissidio tra vincitori e vinti. Il ritorno dell’Italia nel contesto internazionale a pari dignità con gli altri Stati rientra dunque in un disegno che va ben al di là dei confini nazionali. Non si dovevano ripetere gli errori funesti che, pur nello sforzo innovativo di creare una Società
delle Nazioni, avevano caratterizzato la politica estera dopo la prima guerra mondiale”.
Da Presidente del Consiglio Italiano De Gasperi affrontò il percorso verso il trattato di pace con grande senso di responsabilità e soprattutto con una visione di estrema lungimiranza in quanto convinto che il modo in cui sarebbero stati impostati gli accordi, era determinante per le sorti del futuro italiano ed europeo.
Un percorso travagliato ed in salita in quanto gli stati vincitori avevano chiare le responsabilità fasciste, e quindi italiane, della collaborazione con la Germania nazista. In questo contesto le proposte italiane erano fin dai primi incontri consapevoli del delicato ruolo che a loro spettava come esplicitato dal Ministro Sforza in parlamento: “il Governo italiano non si è ristretto ad una sterile difesa di posizioni passate o di immediati interessi ma, là dove apparve necessario e doveroso, prese l’iniziativa di of erte e proposte intese a dare spontanea riparazione per of ese da altrui patite ed a dirimere in maniera concordata ed equa, sia pure a prezzo di sacrifici volontariamente assunti, una serie di problemi e di rivendicazioni che l’eredità fascista aveva portato con sé”.
Prima a Londra nel settembre 1946 e poi nei successivi momenti di confronto a Parigi, De Gasperi deve continuamente difendere l’Italia dalla volontà degli alleati di gravare eccessivamente sulle sue sorti anche in un contesto in cui la questione Jugoslava e quindi il confronto con il mondo dell’est europeo stavano assumendo i caratteri della guerra fredda. De Gasperi insistette comunque nel non confondere le giuste recriminazioni dei vincitori con la necessità che solo una pace equa possa costruire le basi per un futuro di pace.
Altro aspetto che con forza il Governo tenta di porre all’attenzione degli alleati è che l’Italia non si è semplicemente arresa ma ha contribuito in maniera determinante e per un lungo periodo, allo sforzo di vittoria degli alleati. Il sacrificio della resistenza, la messa a disposizione delle forze della marina militare, il grande riscatto del popolo italiano non potevano essere considerati secondari.
Il risultato però non fu quello atteso e ricercato da De Gasperi e nello storico discorso all’Assemblea generale di Parigi del 10 agosto 1946, risuonarono nelle sale francesi le dure ma sempre composte parole dello statista trentino: “Prendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me; e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l'essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione … Permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di responsabilità impone in quest'ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è, nei confronti dell'Italia, estremamente duro ma se esso tuttavia fosse almeno uno strumento ricostruttivo di cooperazione internazionale, il sacrificio nostro avrebbe un compenso…. Per mesi e mesi ho atteso invano di potervi esprimere in una sintesi generale il pensiero dell'Italia sulle condizioni della sua pace, ed oggi ancora comparendo qui nella veste di ex nemico, veste che non fu mai quella del popolo italiano, innanzi a voi affaticati dal lungo travaglio o anelanti della conclusione, ho fatto uno sforzo per contenere il sentimento e dominare la parola onde sia palese che siamo lungi dal voler intralciare ma intendiamo costruttivamente favorire la vostra opera, in quanto contribuisca ad un assetto più giusto del mondo… Signori delegati, grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini della guerra, cioè all'indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. Come italiano non vi chiedo nessuna concessione particolare, Vi chiedo solo di inquadrare la nostra pace nella pace che ansiosamente attendono gli uomini e le donne di ogni Paese che nella guerra hanno combattuto e sof erto per una meta ideale. Non sostate sui labili espedienti, non illudetevi che una tregua momentanea o con compromessi inutili, guardate a quella meta ideale, fate uno sforzo tenace e generoso per raggiungerla. E’ in questo quadro di una pace generale stabile, Signori Delegati, che vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d'Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano.” (De Gasperi M.R. Alcide De Gasperi L’Europa scritti e discorsi. Brescia - Morcelliana, marzo 2004 pagg. 31,32,43,44,45.)
Il 10 febbraio 1947 il segretario generale della delegazione italiana presso la conferenza di pace di Parigi, Antonio Meli Lupi di Soragna, firmò il Trattato di Pace fra l'Italia e le potenze alleate, condizionandone l'efficacia alla ratifica da parte dell'Assemblea Costituente. Il trattato fu ratificato dall'Assemblea nella seduta del 31 luglio 1947 con 262 voti favorevoli, 68 contrari e 80 astensioni. Ai sensi dell'art. 90 del trattato, entrò formalmente in vigore all'atto del deposito simultaneo delle ratifiche dei quattro grandi (USA, URSS, Gran Bretagna e Francia) e dell'Italia, avvenuto al Ministero degli Esteri francese il 15 settembre 1947.
Certamente del trattato di pace l’aspetto più discusso e difficile da accettare fu quello territoriale, con l’Italia costretta a cedere sul fronte orientale accettando la divisione in due zone di Trieste e il passaggio dell’Istria alla Jugoslavia; sul fronte occidentale la cessione ai francesi di 31 zone delle Alpi marittime, e la rinuncia ai possedimenti territoriali in Albania, Libia, Eritrea e nel Dodecaneso, mantenendo soltanto l’amministrazione fiduciaria della Somalia per un decennio.
Lungo il confine orientale della Venezia Giulia, la contesa tra Italia e Jugoslavia si risolse con un compromesso: la creazione del Territorio Libero di Trieste, suddiviso in una zona A a prevalenza italiana, affidata all’amministrazione anglo-americana e una zona B a prevalenza slovena a est di Trieste e comprendente l’Istria, affidata all’amministrazione jugoslava. Una soluzione forzata che portò all’esodo di migliaia di cittadini italiani dalla Dalmazia e dall’Istria, svuotando intere città come Fiume e Pola di tre quarti dei loro abitanti.
Enrico Galvan