Sono appena rientrata da un lungo viaggio in Albania, che mi ha permesso di entrare in contatto con la realtà locale in più aree del paese, raccogliendo sensazioni che difficilmente potrò dimenticare... Le persone gentili ed accoglienti, l’adorata salc kosi, grappa bevuta a ritmo di “Gezuar”, l’agnello, i sufflachi, i Burek, i tori che ti bloccano la strada, le pecore dal cui latte si ricava ottimo formaggio, il miele, le erbe aromatiche che curano ogni male.

 La terra incontaminata, il mare cristallino, gli scogli, colline e montagne fitte di vegetazione, ma disseminate di bunker di cemento armato, con le loro cupolette sferiche che sbucano ovunque, lasciati in eredità dal vecchio dittatore Enver Hoxha.

Tra tutte le città che ho visto, più o meno belle, sono rimasta particolarmente colpita da un quartiere del distretto di Fier-la seconda città più popolosa d’Albania- dove ho soggiornato per un paio di giorni: una città ricostruita, moderna, con quartieri caratterizzati da edifici eretti durante la dittatura comunista, severi, alti, di cemento con scale a vista, caratterizzati da tetti con ampi terrazzamenti piatti, tutti uguali. 

Mi racconta J. (il migliore dei miei compagni di viaggio, originario del posto), che durante la guerra civile nel 97’, i militanti dell’uno (il nord democratico che sosteneva Berisha) o dell’altro schieramento (il sud socialista, guidato dalla sinistra d’opposizione che voleva la lotta armata per indurre il governo alle dimissioni), si piazzavano proprio sulle cime di quei tetti coi loro Kalashnikov, l’arma simbolo del conflitto, prodotta internamente al paese, precisamente nella città di Polican. 

Sono decine gli innocenti che hanno perso la vita a causa di proiettili vaganti.

La nascita di Poliçan risale ai primi anni '60, quando l'Albania ruppe i legami politici ed economici con l’Urss di Stalin. La necessità di produrre autonomamente le armi in dotazione all'esercito, portò alla creazione della fabbrica ed alla conseguente edificazione di una città che accogliesse gli operai che vi lavoravano. Vi furono impiegati soprattutto giovani provenienti da altre parti del Paese affinché si specializzassero nell'uso delle nuove tecnologie di produzione.

 Negli anni '70, all'epoca delle relazioni privilegiate con la Cina maoista, la fabbrica di armi di Poliçan venne presa in mano da numerosi ingegneri, tecnici cinesi e centinaia di specialisti, tra cui il figlio maggiore di Enver Hoxha. 

Dopo il 1990, crollato il regime, la fabbrica bellica di Poliçan chiuse, ma la sua completa devastazione avvenne solo durante i disordini del 1997, quando gli abitanti di Poliçan presero d'assalto la fabbrica saccheggiandola di tutto il materiale bellico in essa custodito: si calcola che in tutto il Paese, durante le violenze del 1997, fino a 550.000 armi di vario tipo, 20.000 tonnellate di esplosivo e 1,5 miliardi di munizioni finirono nelle mani della popolazione civile in rivolta.

Perché questo popolo era così arrabbiato?

Per la cattiva gestione del potere da parte dello Stato, tradottasi anche in gravi difficoltà economiche che avevano ridotto in miseria la maggioranza della popolazione.

Lo sviluppo del paese era stato bloccato dalla transizione da un Comunismo ormai preistorico (erano l’ultimo paese Stalinista al mondo rimasto quando Alhìa prese il potere) ad un post-capitalismo che, però, aveva saltato la fase del lavoro: l’economia, a quel punto, si basava esclusivamente sull’import da altri paesi, eccezion fatta per le attività agricole ed edili, oltre che per il piccolo commercio. 

L’inflazione intanto aumentava, le persone cambiavano il denaro(Leke) sul mercato nero, più vantaggioso rispetto alle banche; gli elevati flussi di denaro entranti dall’estero (frutto di rimesse e traffici leciti e non) non producevano nessuna nuova ricchezza, tornando il denaro ancora all’estero sotto forma di import necessario al paese. 

Mancavano beni essenziali, le principali industrie erano finite sotto la gestione tedesca (industria del cromo), italiana e greca (industrie tessili e costruzioni), mentre l’industria statale era distrutta.

È giusto ricordare però che gli albanesi, nel 97’, si ribellavano perché venissero loro restituiti i risparmi di una vita. 

Ce l’avevano col governo, non combattevano tra di loro, non l’hanno mai fatto, anzi uno dei loro punti di forza è sempre stato il forte spirito nazionalistico e la convivenza pacifica delle loro tre confessioni religiose: Musulmana, Ortodossa e Cattolica.

 L’intera economia, dall’inizio degli anni 90’- dopo il crollo del regime comunista di Enver Hoxha- si reggeva quasi interamente su strutture finanziarie piramidali che il governo Berisha-capo dell’opposizione democratica eletto nel 92’- aveva venduto al popolo come “banche di fiducia” in cui era saggio investire tutti i propri risparmi. 

Purtroppo anche il Fondo Monetario Internazionale ebbe le sue responsabilità nella crisi, tollerando per anni le truffe finanziarie, sebbene a conoscenza di molti meccanismi illeciti: secondo il Fondo, le finanziarie erano degli “ammortizzatori sociali effimeri”, funzionali ad integrare il reddito di categorie meno protette in una società in transizione come quella albanese. Il 18 gennaio di quell’anno, l’allora presidente Berisha annunciò il blocco del sistema di risparmio, su pressioni del FMI. Il 2 marzo, scoppiò la violenza ed il caos nel paese, sorsero numerose bande criminali, il terrore iniziò a dilagare. 

Tra marzo ed aprile oltre 9.000 persone fuggirono in Italia, vittime della violenza e della fame. L’accoglienza non fu delle migliori, complici la disinformazione, la paura del diverso, e le notizie fatte circolare dai media riguardo la “qualità” degli albanesi in entrata (diversamente dagli anni 90’, in cui erano visti come profughi in cerca d’asilo), catalogati come illegali clandestini e marchiati di un pregiudizio che li ha accompagnati per anni... È vero che in quei giorni di marzo, fatti di violenza e sangue, le carceri in Albania vennero svuotate e rimasero incustodite, permettendo la fuga di tutti i detenuti, ma nessuno si è dato cura di specificare i loro capi d’accusa o le ragioni per cui si trovassero in carcere. Soprattutto nessuno si preoccupò di informare del fatto che a bordo di quelle navi c’erano uomini e donne comuni, bambini, anziani, gente in fuga dalla paura e dalla fame: la maggior parte di quei detenuti, inoltre, era accusata di reati patrimoniali, oppure erano oppositori politici, incarcerati per dubbie ragioni all’epoca delle epurazioni della dittatura comunista e mai riscattati; sicuramente anche molti malavitosi si diedero alla fuga, ma in percentuale decisamente inferiore.

La maggior parte di essi fuggì in Italia approfittando del flusso di quei giorni, liberi per la prima volta, come tutti gli albanesi dagli anni 90’, dopo 40 anni di isolamento dal mondo libero occidentale. 

Se si vuole parlare dell’esodo albanese dagli anni 90’ ad oggi, sono necessarie precisazioni numeriche che daranno un’idea dell’entità del fenomeno cui mi riferisco. Ci furono tre ondate migratorie distinte di questo popolo verso il nostro paese, ognuna coincidente con un preciso avvenimento socio- politico: 

-prima ondata,1990-1995, in cui il 91’ fu l’anno di maggior esodo, con due ondate consistenti e distinte, marzo ed agosto. 443.000 emigranti lasciarono il paese.

-seconda ondata, 1997(l’anno di fuoco- crack finanziarie piramidali) - rivolte e guerra civile, fuga dalla violenza e dalla fame. 180.000 persone emigrarono. Quasi agli stessi livelli è stata la tendenza delle partenze nei successivi cinque anni.

-terza ondata (“Invisibile”) 1998-1999: Guerra del Kossovo. 

Mi preme anche ricordare cosa sia accaduto nel territorio kosovaro, poiché l’esodo che ne seguì non fu meno drammatico né consistente di quello dei vicini albanesi... Una volta uscito dall’influenza di Tito e dell’ex-Jugoslavia, il paese fu ben presto preso di mira dal temibile leader serbo Milosevic (già Segretario Della lega dei comunisti serbi dall’86), il quale dal febbraio del 98’ diede inizio all’occupazione del Kosovo assediandolo, attuando opere di pulizia etnica ed imposizione culturale in scuole ed università, marginalizzando gli autoctoni in ogni contesto della vita pubblica ed economica, per cancellarne il processo d’autonomia appena iniziato. 

Ovviamente gli albanesi kosovari reagirono, attuando una resistenza passiva, con la creazione di uno stato alternativo ed autonomo economicamente (la cui autonomia era già stata proclamata in semi-clandestinità nel luglio del 90’, ed al cui interno si era generata una scissione che aveva dato vita all’esercito di liberazione del Kosovo, coloro che volevano la lotta armata, l’UCK). 

Sarà il pretesto di dover combattere questi “terroristi” ad aizzare i serbi contro la popolazione civile, compiendo un vero e proprio genocidio di massa; dopo 2 mesi di massacri indiscriminati (con l’apice tra febbraio e marzo del 98’), ebbe inizio l’esodo kosovaro fuori e dentro i confini albanesi. Solo nei primi 4 mesi giunsero in Italia 19.000 profughi. Ad oggi se ne contano 900.000 ed oltre in vari luoghi del mondo.

Al termine di varie trattative diplomatiche fallite, la Nato risolvette la situazione iniziando i bombardamenti nel territorio il 24 aprile del 99’per sconfiggere gli invasori serbi, il che aumentò vertiginosamente le dimensioni dell’esodo degli albanesi dal Kosovo.

La criminalità organizzata di molti paesi, soprattutto dell’Italia, inizia ad interessarsi all’Albania in quegli anni proprio a causa della potente attrazione esercitata dalla facile reperibilità delle armi, dall’impunità giudiziaria (fino al 2002 non erano previsti dal codice penale albanese i reati connessi all’esercizio della criminalità organizzata), oltre che dalla condizione stessa del paese di recente libertà e fragilità. 

Di vitale importanza la sua posizione strategica, una porta per l’occidente per molti paesi da oriente fino ai Balcani.  

Le mafie iniziano ad investire nella finanza albanese per ottenere il denaro necessario all’avvio di altre imprese; il contrabbando diventa un vero business internazionale, il denaro sporco viene ripulito. 

Poco a poco la gestione del trasporto della droga ed altre attività illecite viene affidata agli stessi albanesi; l’epicentro di tutto questo diviene Valona.

Tra queste attività illecite rientrano anche vari tipi di traffici clandestini, coinvolgenti ragazze adescate ai fini della prostituzione, oltre alla vendita e sfruttamento di minori.

Molti cittadini di aree in via di sviluppo hanno usato- e continuano ad usare- l’Albania per entrare clandestinamente in Europa. Dal 2002 grazie alla strategia antitraffico nazionale il numero di clandestini trasportati via mare è diminuita, sebbene sia stata sostituita da altre rotte, anche terrestri.

Oggi le cose sono cambiate, le immagini delle navi affollate degli anni 90’ sono un ricordo lontano; L’Italia non è più un paese così difficile da raggiungere ed in cui stabilirsi, basta chiedere un visto turistico o un visto Scenghen nelle ambasciate europee con la prospettiva di non tornare, nemmeno dopo la scadenza. Oggi le mire si sono spostate su luoghi in cui ci siano reali prospettive lavorative ed economiche come Stati Uniti e Canada. 

L’Albania è un paese ancora in transizione, sulla via dello sviluppo, che sta lottando per rientrare nei parametri necessari all’ingresso nell’Ue. Nel 2021 ci sono state le elezioni parlamentari, la maggioranza è stata raggiunta dal Partito Socialista d’Albania (74 seggi) con a capo il Leader d’opposizione Edi Rama, già al terzo mandato dopo 8 anni, storico oppositore di Berisha, con cui i contrasti raggiunsero il culmine nel 2011, quando i seguaci di Rama guidarono la folla per incitare il governo alle dimissioni ed il governo rispose con la repressione ed il sangue.

L’ambasciatore d'Italia in Albania Fabrizio Bucci ha analizzato il percorso verso l'Unione Europea del paese “Shqipetare”, iniziato formalmente con la richiesta di adesione all’Unione Europea nel 2009, seguito dall’ottenimento nel 2014 dello status di Paese candidato. A marzo di quest’anno, c’è stato il via libera (condizionato) dato dal Consiglio Ue all’avvio dei negoziati. È previsto un vero monitoraggio dei negoziati da parte del “Consiglio Nazionale per l’Integrazione Europea” (CNIE); l’Albania dovrà colmare lacune su vari fronti: il completamento della riforma della giustizia al contrasto della criminalità organizzata e narcotraffico, il rafforzamento della pubblica amministrazione, la lotta alla corruzione, il miglioramento del “business climate”, il varo di un quadro normativo che rafforzi il mercato interno e stimoli gli investimenti esteri.

L’Italia è il primo paese che investe in Albania, considerata la vicinanza geografica e le relazioni storiche da sempre presenti col paese di fronte: dagli anni 90’ sono stati stanziati oltre 700 milioni di euro per interventi d’emergenza e sostegno allo sviluppo, con oltre 30 Ong presenti sul territorio attive in 11 settori. 

Ad oggi sono oltre 300 i milioni impegnati in progetti sull’intero territorio nazionale albanese, ed analizzandone la ripartizione emergono alcune criticità.

Solo 7,8 milioni sono stati investiti in istruzione (ancora troppo scarsa nel paese, con tassi di dispersione scolastica troppo elevati soprattutto nelle aree rurali), e solo 2,2, milioni (il dato più sconcertante!) sono attualmente impegnati in progetti Ambientali e di sviluppo sostenibile, quando, si sa, la comunità internazionale già da tempo ha focalizzato ogni sforzo di sviluppo del millennio in quella direzione (Sustainable Development Goals, Agenda 2030). Ancora, solo 13,7 milioni sono impiegati in progetti di agricoltura e sviluppo rurale, il settore con maggiori potenzialità (che potrebbe creare nuove valide alternative alla migrazione soprattutto giovanile), ancora bloccate dalla mancanza di servizi agricoli e meccanizzazione; ancora molto diffuso il sistema del micro credito come alternativa più sostenibile. 

Per la gestione degli acquedotti, dei sistemi fognari e della gestione dei rifiuti sono impegnati 34.5 milioni: sebbene sia stato redatto e reso operativo un codice di gestione integrata dei rifiuti, è ancora lunga la strada per il raggiungimento degli standard europei richiesti (riduzione impatto ambientale rifiuti, raccolta differenziata, smaltimento).

Ma i dati sugli investimenti non finiscono qui: solo 2.2 milioni sono impegnati a supporto del Governo e della società civile, quando è chiaramente emerso quanto sarebbero necessari un cambio radicale di paradigma ed un’inversione culturale, a causa di quella cultura della violenza, della corruzione, dell’illegalità ancora troppo presente. 

A livello internazionale, sono numerosi i dati disponibili sul paese ed il suo vicino:

Eurostat ha pubblicato cifre su Albania e Kossovo, ed emerge subito come siano i due paesi che hanno un’aspettativa di vita più elevata, sia per uomini che per donne, e hanno ancora una popolazione giovane. Ma entrambi i paesi sono i più poveri d’Europa. Il reddito pro capite del Kosovo e dell’Albania è il più basso, raggiungendo rispettivamente il livello di 3.700 e 4.800 euro pro capite. Nonostante questo, entrambi i paesi di lingua albanese hanno la più alta densità di popolazione nei Balcani. 

Sono molte anche le realtà della cooperazione, in particolare italiana, che hanno agito a sostegno degli abitanti di numerose aree rurali con programmi di micro credito per imprenditori agricoli, costruzione di infrastrutture, canali, ponti, strade... (per citarne solo alcune VIS, CESVI, COSPE, COSTE ONLUS).

Il Fondo Monetario Internazionale, nel suo ultimo report “World economic outlook” ha elencato una serie di previsioni di crescita economica per i paesi dei Balcani

 nel 2021: tra questi, quelli caratterizzati da un’economia emergente e in via di sviluppo (Albania, Kosovo, Moldova, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Macedonia del Nord) vedranno nel 2021 una crescita economica del 4,4%.

 In questo scenario macroeconomico l’agricoltura si conferma uno dei pilastri dell’economia albanese, generando il 20% del PIL del Paese e assorbendo oltre il 35% dell’occupazione totale.

È proprio il settore agricolo ad avere le maggiori potenzialità e contemporaneamente difficoltà, a causa dell’ancora elevata frammentazione degli appezzamenti. (Country study report, “Smallholders and family farms in Albania” 2019, FAO).

Ecco emergere una delle barriere fondamentali allo sviluppo e all’affrancamento dell’economia albanese, che continua ad impedire che i prodotti locali possano divenire più competitivi sul mercato: quasi il 50% dei titoli di proprietà delle terre agricole del paese non sono registrati presso gli appositi uffici. Anche questa è una eredità del regime comunista di Hoxha (ricordiamo la legge fondiaria del 1976), che aveva abolito ogni forma di proprietà privata e collettivizzato l’agricoltura, imponendo una riforma agraria che mise in ginocchio il paese. 

Basti ricordare che negli anni 80’, una volta finiti gli aiuti cinesi, l’Albania aveva il Pil più basso d’Europa(750$).

Con la legge fondiaria 7.501 del 91’, dopo la fine della dittatura, vennero distribuiti su base paritaria (pro capite) i terreni agricoli, delle fattorie collettive e demaniali, alle persone che vi lavoravano, causando l’attuale dispersione.

Ma i problemi che incontrano gli agricoltori albanesi non finiscono qui: sono carenti le attrezzature di base, come le pompe adatte alla corretta irrorazione dei pesticidi, o le reti per la raccolta delle olive, una delle colture principali. 

Per molti agricoltori (e non solo) è ancora molto diffuso il sistema del micro credito come alternativa più sostenibile per portare avanti il proprio lavoro; l’accesso al credito è estremamente limitato, rappresenta solo il 2% del credito totale delle imprese (BCA*). 

A livello europeo l’intervento si è concretizzato finanziando a fine 2020, con un budget di 30 milioni di euro, il terzo bando di un programma a sostegno di agricoltori ed industrie agroalimentari IPARD II; infine, si possono acquistare macchine agricole esentate dall’IVA.

A livello paese, Il legislatore albanese ha introdotto misure di sostegno ai piccoli-medi produttori abitanti di numerose aree rurali del paese, quali un regime speciale IVA ed il carburante a tasso agevolato (in vigore da febbraio 2021). 

Sono evidenti gli sforzi che il nostro vicino sta compiendo nel percorrere la sua strada sulla via dello sviluppo; le sfide rimangono molte, perché molti ancora sono i problemi da risolvere.

Per poter capire le difficoltà dell’Albania non è possibile prescindere dalla conoscenza della sua storia e delle tante lacune che richiederanno decenni per essere colmate; rimane un paese in transizione, consapevole del proprio potenziale, che sta cambiando lentamente faccia, aprendosi alle opportunità date dal turismo, agli scambi economici ed alle nuove sfide portate dalla globalizzazione. 

È di vitale importanza che le politiche e le risorse pubbliche siano indirizzate all’istruzione, la chiave per qualsiasi cambiamento culturale reale; solo con la cultura si può davvero ambire a creare generazioni di uomini e donne che cambino il loro paese, ed abbiano la giusta visione della strada da percorrere. 

Secondo un report della divisione della popolazione dell’ECOSOC delle Nazioni Unite, entro il 2100 altre 615.000 persone lasceranno l’Albania; queste cifre restano ipotesi, ma sono numeri che devono far riflettere, e che dovrebbero essere punti di partenza da cui cercare nuove soluzioni affinché i cittadini albanesi, un bel giorno, possano non vedere più l’emigrazione come miglior alternativa.

 

Carlotta Biggi