Dopo più di 150 giorni di guerra, e in attesa dell'annunciata invasione terrestre di Rafah, mai smentita, l'orrore continua in tutta la sua crudezza.
Il fatto incontrovertibile è che più di 100 civili affamati e senza casa - donne, anziani, giovani uomini - che hanno vissuto l'inferno negli ultimi cinque mesi sono stati schiacciati, calpestati o colpiti da colpi di arma da fuoco mentre correvano verso alcuni camion che trasportavano cibo.
Questo terribile incidente, insieme alla morte per fame di decine di bambini, segnano il tenore di questa guerra negli ultimi giorni.
Per quanto tempo l’Occidente (Europa e Stati Uniti) tollererà questo?! Hanno gridato recentemente Papa Francesco e il Patriarca cattolico di Gerusalemme, Pizzaballa.
In Israele sono ormai tanti a domandarsi:
- Stiamo meglio adesso rispetto al 6 ottobre 2023?
- Siamo più forti?
- Siamo più sicuri?
- Abbiamo una maggiore capacità di deterrenza?
- Siamo più popolari?
- Siamo più orgogliosi di noi stessi?
- Siamo più uniti?
- Meglio in qualche modo?
E la risposta di molte persone è inequivocabilmente: no. Tuttavia, dopo più di cinque mesi di morte e distruzione senza precedenti, non c’è stata alcuna opposizione pubblica alle guerre.
E sebbene Israele sia ora molto meno sicuro rispetto a prima della guerra, si trova ad affrontare il rischio di un’escalation regionale, di sanzioni globali e della perdita del sostegno americano.
A ciò bisogna aggiungere il numero giornaliero dei soldati caduti, il fatto che la maggior parte degli ostaggi non è stata ancora liberata; che decine di migliaia di israeliani sono sfollati, che metà del paese è una zona pericolosa.
Senza dimenticare che la Cisgiordania rischia di esplodere, e nulla può nascondere l’odio senza fondo che è riuscita a seminare a Gaza, in Cisgiordania e nel mondo arabo.
Cosa ci guadagna Israele da questa guerra? Questa domanda aleggia nei cuori e nelle menti di molti israeliani...
L'arrivo di un accordo di cessate il fuoco, a volte vicino a volte lontano, potrebbe essere raggiunto dopo l'inizio del mese di digiuno nel mondo musulmano: il ramadan.
Quella era la data fissata dall’amministrazione statunitense e, per ora, non si vedono progressi.
A prima vista, questa è una classica dinamica di negoziazione. Quasi sempre le possibilità sembrano scarse e i mediatori non mostrano ottimismo, fino all'ultimo minuto.
E intanto la vita umana sembra non importare a nessuno...
Il presidente degli Stati Uniti ha attribuito la responsabilità del fallimento dei negoziati a Hamas. Israele, ha detto Biden, ha risposto positivamente al piano presentato da Stati Uniti, Egitto e Qatar; ora era necessaria una risposta positiva da parte di Hamas.
E questo, per quanto è noto, non è ancora arrivato. La formula di base, presentata in numerosi incontri a Parigi e al Cairo, è già nota. In una prima fase Hamas dovrebbe rilasciare i circa 35 israeliani rapiti il 7 ottobre: donne, anziani e prigionieri malati o feriti. In cambio, alcune centinaia di prigionieri palestinesi imprigionati in Israele verrebbero rilasciati e verrebbe dichiarato un cessate il fuoco per circa sei settimane, durante le quali si terrebbero colloqui per liberare i restanti ostaggi israeliani
Nella Striscia di Gaza sono detenuti 134 israeliani; l'esercito israeliano ha annunciato che 33 di loro sono morti, ma il numero reale delle vittime è probabilmente più alto.
Ci sono tre principali punti di disaccordo tra le parti: il numero di prigionieri “maggiori” che Israele rilascerà, la natura della transizione verso un cessate il fuoco permanente e la fine della guerra, e il numero di palestinesi che torneranno nel nord di Israele.
La questione più acuta riguarda la continuazione dei combattimenti. Hamas vuole che il rilascio degli ostaggi metta fine allo stato di guerra e diventi un'assicurazione sulla vita per i suoi leader. Israele non è disposto a fornirlo. Disaccordi enormi e quasi insormontabili! Netanyahu non vuole dare l'impressione che tutti questi sforzi siano stati inutili...
Nel frattempo la guerra ha già mietuto più di 30.000 palestinesi.
E non si può dimenticare che è doveroso avviare negoziati seri per risolvere il conflitto.