Nell’attuale conflitto la Cina si muove con molta cautela, intenta soprattutto a non turbare i suoi delicati equilibri interni e internazionali.
Tradizionale alleato, per molti versi della Federazione russa, il gigante asiatico in questo conflitto europeo, che poi europeo non è, è il convitato di pietra al quale, alla fine, ci si dovrà rivolgere per definire i nuovi assetti mondiali.
Alcuni segnali, però, sono importanti. Il primo di questi è la ferma convinzione che i confini attuali vadano rispettati. Il secondo è che non si è acuita la nota questione di Taiwan, aprendo un fronte con gli Stati Uniti. La dichiarazione resa al riguardo qualche settimana fa che Taiwan è una questione interna cinese, in un qualche modo è rassicurante.
Il binomio russo-cinese, complesso e non sempre pacifico, sta diventando un rapporto tra fornitore e cliente. La Cina è immensa, se paragonata alla Russia e il potenziale militare russo, oggi, è alquanto ammaccato. La Russia può fornire gas e petrolio alla Cina, sempre che si siano attrezzate strutture adeguate, che non ci sono e per le quali occorrerebbero anni.
La questione di fondo è quale sia l’interesse della Cina, come grande potenza mondiale, in questo conflitto che sta mettendo in ginocchio le economie europee, compresa quella russa. I negoziati per un cessate il fuoco farebbero comodo a tutti, almeno in prima battuta, ma le sanzioni?
Dalla parte di Mosca, arrestare i combattimenti darebbe respiro all’esercito, duramente provato. Inoltre, permetterebbe dimostrazioni adeguate alla frontiera finlandese, tanto per fibrillare la NATO e gli Stati Uniti. Le assicurazioni britanniche di garanzia per la Finlandia, però, vanno prese sul serio. L’Inghilterra entrò in guerra, nel 1914, perché si era impegnata per la neutralità del Belgio, invaso dai Tedeschi. Analogamente, accadde per la Polonia, nel 1939. I Russi, dopo due guerre e mezza combattute contro Helsinki, sanno bene che la Finlandia è un osso duro, specie con gli Inglesi a fianco. Da questo punto di vista, il fronte finlandese sarà, forse, lo scacchiere più delicato cui bisognerà guardare con maggiore attenzione.
Comunque, se le sanzioni dovessero restare, i negoziati sarebbero a un punto morto. Forse si raggiungerebbe il cessate il fuoco, il che di per sé sarebbe un successo, ma non si risolverebbero le altre questioni essenziali: i confini territoriali, chi paga i danni per le distruzioni effettuate, la prosecuzione o meno delle sanzioni alla Russia.
L’attuale situazione di stallo giova agli interessi cinesi? La Cina, in questo momento, è tra due fuochi interni: quello sanitario, con il Covid nella sua ultima versione, che blocca fra l’altro, il porto di Shangai, e quello politico, con i fermenti autonomistici del Sinkiang. Poi, c’è il grande vicino, l’India, che si sta armando pericolosamente, amica della Russia, come la Cina, ma non della Cina, con la quale ci sono state almeno due guerre. L’India si appresta ad essere non solo una grande potenza demografica ma anche militare. Un concorrente pericoloso.
La questione che maggiormente interessa Pechino è soprattutto il commercio, di cui vive la Cina per sfamare la sua gente. Il mercato russo è relativamente povero. Dalla Russia Pechino può solo prendere ma ha poco da vendere. I mercati occidentali sono molto più ricchi, anche se, in questo momento, sono particolarmente depressi.
Il cessate il fuoco, molto probabilmente, riaprirebbe i mercati, a cominciare dal porto di Odessa, con milioni di tonnellate di grano in attesa d’essere esportati sul mercato internazionale dei consumi. La prospettiva della penuria alimentare, che travolgerebbe soprattutto l’Africa, dove sono presenti massicci investimenti cinesi, non è esaltante. Si può fare a meno di gas e di petrolio, ma non di grano e di soia. Una crisi alimentare mondiale investirebbe pesantemente anche la Cina. Per questo il tema delle sanzioni resta molto importante.
Certo, il conflitto ucraino che convoglia l’attenzione del mondo potrebbe essere un’occasione allettante per chiudere la questione di Taiwan, mettendo in serio imbarazzo gli Stati Uniti. Si può fare una guerra mondiale (o quasi) per Taiwan? Come ci si può ragionevolmente opporre al ricongiungimento di un’isola cinese alla madrepatria?
Quest’isola, però, ha un difetto, diciamo, storico. Non è mai stata un’isola cinese, checché ne dicano gli attuali governanti di Pechino. Dal 1895 al 1945 è appartenuta al Giappone con il nome di Formosa. Un’asserzione che può sembrare eccessiva, ma lo stesso Mao Tse Tung, il padre della Repubblica popolare, nel 1936, scriveva: “… se il popolo coreano vorrà liberarsi dal giogo degli imperialisti giapponesi, sosterremo con entusiasmo la sua lotta per l’indipendenza, e questo vale anche per Taiwan.”
Il Premier Chou En-Lai, nel 1941, ribadì il concetto: “Non solo sosteniamo (l’indipendenza) di Corea del Nord e di Taiwan, ma simpatizziamo anche con il movimento di liberazione nazionale in India e nei Paesi dell’Asia meridionale.”
In un articolo dell’8 marzo 1947, pubblicato sullo Jièfàng ribào (Quotidiano della liberazione), Mao Tse Tung tornò sull’argomento, scrivendo: “Le nostre forze armate sotto la leadership del partito comunista cinese, supportano pienamente la battaglia del popolo taiwanese contro Chiang Kai-shek e il Kuomintang. Noi sosteniamo l’indipendenza di Taiwan e siamo favorevoli al fatto che Taiwan fondi una nazione come richiede.”
Dichiarazioni in linea con quello che sosteneva, nel 1938, il suo rivale Chiang Khai-shek: “…dobbiamo ripristinare l’indipendenza e la libertà di Corea e di Taiwan per consolidare la difesa nazionale della Repubblica di Cina.”
La politica cambia e le situazioni si evolvono, si cancellano i Trattati, ma le pretese territoriali cinesi sono alquanto dubbie. Ciò spiega la cautela di questo settantennio di pace armata nelle acque di Taiwan. Che i Cinesi vogliano l’isola è comprensibile, che ne abbiano diritto, è piuttosto incerto.
Stelio W. Venceslai