È sempre più stupefacente leggere prese di posizioni, anche all’interno della nostra area culturale (in senso lato), ove non si fa velo di incontrollate impulsività e di veemenza lessicale con cui, ora si commentano le strategie sanguinarie del capo del Cremlino, ora si connotano posizioni personali divergenti.
E se da una parte esse trovano la naturale giustificazione perché qui è in gioco il futuro e la sovranità di tanti popoli, dall’altra fa un certo effetto cogliere, nei sensi più espressivi di questi confronti, il segno di posizioni, così apodittiche, che, come vasi non comunicanti, sembrano destinati a non convergere.
In questa dimensione oltre a fare un torto alla “Ragion pratica” di Kantiana memoria, difficilmente un confronto così apodittico e fazioso, come ne stiamo vedendo tutti i giorni nei talk show e nelle specifiche posizioni dei leader politici, può essere fucina di soluzioni capace di comporre ciò che in politica è molteplice e complesso.
Con il paradosso che, ancora una volta Draghi, lasciato solo, mentre i partiti litigano sul che fare, finisce per lasciarsi ammaliare (forse guardando ad altro) da posizioni che forzano, in qualche modo, i nostri principi costituzionali.
Alludo in particolare alla decisione di fornire armi, che, a questo punto, sembra quasi, senza condizione.
Così si corre il rischio di smarrire tutta quella parte della dimensione morale che ci impone, sempre, l’etica del dover essere.
Certo non in nome di ideologie che pretendono obbligatoriamente un solo comune habitus mentale nel quale lo Stato si arroga il diritto di educare il proprio popolo ad un pensiero che non tollera dissenso (e qui non è solo la Russia, ma anche la Cina e tutti i regimi confessionali).
Tutto questo in una visione cinica e spregiudicata della vita e del mondo piegata a riproporre quelle condizioni pre giuridiche che furono oggetto, con “Il Leviatano”, delle speculazioni di Thomas Hobbes.
Scrive, in occasione del 25 aprile scorso, il direttore dell’Osservatore Romano, Andrea Monda: “La “desertificazione” delle emozioni ha prodotto un uomo squilibrato, armato solo della fredda razionalità, ma che ha perso il cuore dell’umanità”.
Una mutazione antropologica che affonda le radici già nella speculazione filosofica espressa con grande acume da Baruch Spinoza, con cui, nel tentativo di convincere i governanti a porre fine alla follia di una guerra interminabile, che in quei secoli insanguinava l’Europa, il filosofo olandese esortava con la famosa frase a leggere le “cose umane”, e che il direttore dell’Osservatore Romano ci ricorda:
«Non ridere, non lugere neque detestari sed intelligere», ossia «Non ridere, non piangere né detestare ma (cerca solo di) capire».
In questa chiave di lettura, ossia rimuovendo ogni rivolo di emotività può agire, senza inganni, il focus della comprensione e lo scandaglio dell’intelligenza.
Così il razionalismo di Spinoza apriva la strada all’epoca dell’Illuminismo.
Certo la rivalutazione dell'emozionalità non tardò a trovare nell’Idealismo di Hegel e successivamente nel filone romantico, nel quale possiamo riconnettere, sia pure atipicamente, le iperboli metaforiche del pensiero di Nietzsche, l’esaltazione di quella parte motivazionale delle azioni umane più istintuale, e senza freni “Superuomo”, che fece da humus culturale per travolgere i limiti di quell’equilibrio di valori che il giusnaturalismo aveva già ben demarcato.
E finì per divenire la genesi di aberranti disegni di dominio nel ‘900, con ben due conflitti mondiali combattuti sul continente europeo.
Ancora oggi le nostre democrazie devono stare allerta affinché quelle che appaiono come marginali caratterizzazioni populiste e nazionaliste di certe forze politiche, non prendano il sopravvento.
Purtroppo non è bastato il fatto che dopo la seconda guerra mondiale le Cancellerie del mondo si trovarono concordi nel rifondare la Società delle Nazioni, dando nuova veste giuridica all’Onu e scolpire nelle Costituzioni( ma non fu così per i paesi del blocco sovietico e per la Cina e il sud-est asiatico)quel virtuoso florilegio dei principi universali che le Rivoluzioni, americana e francese, seppero esprimere nelle tre emblematiche parole: liberte’, egalite’, fraternite’, per rendere non più riproponibile uno scenario da terza guerra mondiale.
Oggi ripercorriamo quello scontro di civiltà che attraversa, da più di due secoli, l’affermazione di quei principi universali che la Carta dell’Onu ha riconosciuto come valori imprescindibili per la tutela dei diritti umani e dei popoli.
Ora la minaccia viene dal ventre molle di una Nazione (per essere più precisi una Confederazione) che non ha conosciuto la Democrazia (come si intende in Occidente) e lo stato di diritto e che vagheggia da secoli, persino durante il Comunismo, sogni imperialisti.
Un contesto nel quale ha grande peso il controllo dei media e la scarsa acculturazione per la sua dimensione prevalentemente rurale.
Ma anche un paese che ha saputo esprimere élite culturali capaci di cogliere le più profonde vibrazioni dell’animo umano attraverso le pagine di F. Dostoevskij e L. Tolstoj.
Putin, facendo leva su un forte revanscismo delle dottrine imperialiste, che in quel paese sono rimaste sempre sotto la cenere, in un mix di integralismo e populismo, e inebriato dallo sconfinato potere personale che ha acquisito, si comporta capricciosamente come un despota assoluto nella certezza che ogni sua volontà (di potenza) oramai non trova più argine.
E non è il solo.
In piccolo, li abbiamo anche fin sotto casa: Erdogan e Al Sisi.
Cosa che dovrebbe tenere molto prudenti le Cancellerie nel pur necessitato disegno di agire tra sostegni alla guerra, sanzioni incisive e isolamento monetario.
È proprio di ieri l’ennesima minaccia di una terza guerra mondiale che il ministro degli Esteri Lavrov ha fatto riecheggiare nei media di tutto il mondo.
Mentre nessuna incisività sembrano aver avuto i tentativi di trovare condivisione nelle due superpotenze asiatiche: Cina ed India, per indurre Putin al cessate il fuoco.
Esse fanno orecchio da mercante perché sono proiettate verso un nuovo ordine mondiale teso ad indebolire la funzione di presidio delle democrazie nel mondo che gli USA, con tutti i loro limiti (vedasi tutta la polemica sulla pretesa esportazione della democrazia nei paesi di altra cultura politica, Iraq e Afghanistan ne sono palmare esempio)hanno rappresentato.
Mentre sembrano più credibili le performance di Erdogan al cessate il fuoco per gli evidenti interessi del suo paese in quel quadrante geopolitico che dai Dardanelli arriva fino al mar di Azov.
Uno scenario che non ci rassicura perché rende evidente il crinale che hanno imboccato inesorabilmente le potenze Eurasiatiche per le quali la democrazia è una dottrina al crepuscolo.
Un crinale che ha palesemente bandito dai principi internazionali la sicurezza dei territori ed il rispetto delle scelte dei popoli.
Ed è proprio in questi momenti, nei quali la Storia è costretta a scrivere le pagine peggiori, che ci tocca fronteggiare con il massimo dell’acume e della intelligenza, simili aberrazioni.
Ma è anche vero che, in un quadro di pacifica convivenza tra i popoli, c’è un diritto comune, non scritto, che impone la solidarietà ed il sostegno, non solo umanitario, alla resistenza militare e civile di un paese aggredito.
Troppo c’eravamo illusi e, anche stupiti, che fossero passate bellamente ben più di settant’anni senza che si intravedesse la concreta minaccia di un terzo conflitto mondiale.
Un errore di valutazione o una lettura sbagliata dei contesti geopolitici che man mano si sono venuti a determinare nei quadranti più caldi dei nostri continenti.
Tra essi la questione Ucraina è stata senz’altro, e per troppo tempo, sottovalutata dalle super potenze.
Eppure non è mancato chi, come il decano dei diplomatici, Henry Kissinger, già nel 2014, ci aveva messo in guardia della singolare situazione Ucraina, divisa tra mire imperialiste della Russia di Putin e voglia di Europa di gran parte del suo popolo.
La piccola rivoluzione del 2014 era stato il segnale più evidente dello scontro di civiltà che in quel territorio, al confine con la Russia, si stava giocando nella logica di una nuova demarcazione tra democrazia e autocrazie.
Noi - parlo della cultura politica cattolico-democratica che ci accomuna in tanti - non abbiamo mai propiziato il ricorso alle armi, salvo che non sia stato per difendere la Patria in pericolo.
E al contempo, portatori di una cultura politica che affonda le radici nel popolarismo e nella tutela della vita e della persona, non possiamo non sforzarci di comprendere come è difficile accettare contesti così devastanti per civili inermi: donne, bambini, anziani, davanti ai quali il Papa ha amaramente constatato che «La nostra civiltà, i nostri tempi, hanno perso il senso del pianto».
Mentre non giova il facile manicheismo di quanti bollano, come espedienti filo-Putin, invocazioni e Appelli di invito alla pace e al cessate il fuoco.
Le connotazioni negative lasciamole al facile sfogo della coscienza umana nei momenti in cui essa si divincola dalle “missioni” che spesso caratterizzano i nostri orizzonti politici.
Il nostro impegno di Cristiani e i nostri principi mettono l'Umanità e ciascuna persona al centro dell’azione politica.
Perseguiamo il raggiungimento del bene comune, e agiamo e dialoghiamo per raggiungere ovunque obiettivi di convivenza civile e per mutare in meglio i contesti storici entro cui operiamo.
Così se è doveroso non stare con gli occhi chiusi di fronte a così grave tragedia umana che sta vivendo il popolo ucraino, nondimeno ci autorizza a scegliere o a vederne come unica via, il terreno militare ed il sostegno in armi come unico mezzo per risolvere il conflitto.
Vero è che la difesa della democrazia, ma anche qualunque aggressione, non può e non ci fa mai restare inerti nella solidarietà e nel sostegno verso ogni popolo aggredito.
Ma cosa diversa è, se con dichiarazioni plateali e talvolta provocatorie,come sembra essere l’attuale linea di Biden, che stride con le modalità con cui si è affrettato ad abbandonare l'Afghanistan, si va ad armare un paese aggredito, scatenando inconsulte reazioni da parte del paese invasore che, non vincolato da alcuna ritualità istituzionale che non sia la volontà del suo presidente , finisce per puntare solamente sulla soluzione militare.
Con l’aggravante che può essere un ottimo pretesto per Putin per allargare il teatro di guerra, come pare stia per verificarsi con le recenti incursioni militari in Transnistria, magari attraverso incidenti appositamente provocati.
Un evento, quello dell’allargamento del conflitto, che in tutti i modi dobbiamo invece scongiurare perché, oltre a non arrivare a nessun negoziato, si rischia di esporre milioni di cittadini europei alle brutalità della guerra.
C’è invece necessità di parole serie e non bellicose che solo la diplomazia rende possibili per trovare i punti di interesse per un accordo negoziale che risolva la convivenza, attraverso speciali autonomie alle regioni del fianco est delle due diverse culture politiche, oltre che di lingua, dentro l’Ucraina.
Tuttavia scontiamo tutta l’impotenza in cui naviga da tempo l’Ue, che non riesce ad accreditarsi come interlocutore valido, per le tante ragioni a noi note, e che in definitiva le impediscono di assumere un univoco atteggiamento, sia sul piano economico che degli aiuti ad ampio raggio all’Ucraina, finendo per arrancare dietro al carro degli USA che non fanno velo di essere il contendente, non solo occulto, di questa guerra (non pochi osservatori l’hanno definita per procura) il cui teatro è, ancora una volta, il continente europeo, senza riuscire a trovare sponda nell’apparente indifferenza della Cina, che ha invece tutto l’interesse a non squilibrare il suo disegno neo-colonialista e a tenere lontani gli Stati Uniti dall’asse Indo-cinese.
E non da poco pesano sull’atteggiamento irresoluto dell’Ue, le eccessive dipendenze energetiche che a cominciare dalla Germania non si è disposti a troncare a breve.
Retaggio di quella malintesa globalizzazione che ci ha ciecamente portati a fare a meno di produzioni o infrastrutture energetiche interne, nel solco di quei teoremi, tradotti nella tavola di Heckscher-Ohlin, che consigliava gli import se a prezzi ancora minori si poteva ottenere la stessa quantità e qualità comprando la medesima merce da altri paesi, ma che hanno finito per intaccare la piena sovranità di questi paesi e rendere la politica subalterna all’economia.
E di certo non aiuta la fragile e finta baldanza degli Usa e la politica a zig zag della NATO.
Entrambi hanno chiuso gli occhi in questi due precedenti lustri lasciando alla Russia di occupare militarmente la Crimea e sorvegliare militarmente il Donbass, senza sollevate decise questioni in campo internazionale, finendo per non agevolare da subito una soluzione che accontentasse le due parti e impedisse una sovraesposizione della vicenda destinata da quel momento a far presagire un prevedibile intervento militare, come fu facile profeta Henry Kissinger in un articolo del Washington post.
Peraltro gli innumerevoli sondaggi in campo, ci delineano con nettezza quanto sia fortemente avvertita nella coscienza di tanti italiani, di fronte alle brutalità che le truppe del Cremlino stanno facendo, prendendo di mira civili inermi, ove non pare possa escludersi il ricorso ad arsenali chimici, come sembrerebbe, secondo fonti giornalistiche e le prime inchieste giudiziarie, la priorità di prodigarsi il più possibile per un immediato cessate il fuoco ed una soluzione negoziale del conflitto.
Per di più non è da sottovalutare l’esplicita minaccia di Putin a non farsi scrupoli per un eventuale ricorso ad armi nucleari.
Mentre vien da chiedersi a chi giova offrire a bella posta il pretesto per incidenti che possano coinvolgere paesi confinanti dell’ex patto di Varsavia?
Se da una parte è giusto fornire armi di difesa per consentire alle truppe di resistenza Ucraine di fronteggiare l’invasione, non pare altrettanto savio entrare nella logica di un sostegno totale dell’esercito ucraino rifornendoli di armi di ogni tipo, senza fare distinzioni tra armi difensive ed offensive.
Questo perché è palese che l’obiettivo che muove Putin non appare essere solo l’annessione definitiva della Crimea e del Donbass.
Anzi, senza troppe finzioni ha chiaramente dichiarato guerra all’Occidente nella convinzione che esso non è altro che l’espressione, oggi sempre più decadente e corrotta, della Democrazia, che Putin non ama.
Ma questo è un disegno a medio e lungo termine che militarmente non può realizzare in questa stagione.
Ecco perché è necessario che si arrivi prima possibile ad un cessate il fuoco e sedersi seriamente attorno ad un tavolo per negoziare i prodromi di una pace.
In tale scenario entrerebbero giocoforza le altre superpotenze, Usa,Uk, Ue,Turchia (che già ospita l’attuale tavolo negoziale con grandi interessi in campo) Cina, India,e qualche rappresentante dell’Africa, sotto l’egida dell’Onu,cogliendo l’occasione per una ridefinizione delle zone d’influenza.
In tale scenario non appare molto rasserenante l’atteggiamento di Biden che sta forzando la pressione psicologica su Putin per indurlo a non negoziare nella convinzione che più si allunga la guerra più egli si impantana nelle sacche di resistenza degli Ucraini, fidando che questa défaillance porti ad un cambio di regime.
Una strategia che seppur in una logica di logoramento finalizzata a convincere la Cina a sedersi ad un tavolo per delineare un nuovo ordine di sfere d’influenza, non si acconcia con le attese dei paesi dell’Europa democratica che vedono nel prolungarsi del conflitto un pericolo sempre più concreto di un’escalation capace di trascinare dentro una terza guerra mondiale il Continente europeo, con tutti i rischi veri di una soluzione nucleare.
Insomma un negoziato a metà tra una nuova Yalta e una riedizione del Congresso di Vienna senza obiettivi di restaurazione ma di pacifica convivenza che però dovrebbe trovare la conditio sine qua non, in prospettiva, di un disarmo nucleare totale.
Ma viene anche da chiedersi se sia davvero il caso di riportare il mondo ad una riedizione della divisione per blocchi, facendo pagare a tutti quei territori di confine tra i modelli politici antitetici, democrazie e autocrazie,un prezzo così alto, imponendogli di fatto una rinuncia al principio di autodeterminazione.
Luigi Rapisarda