La riflessione del sen Gubert, in prima lettura, appare impeccabile.
In realtà dissimula uno di quegli artifici logici costruiti sulla falsariga di una retorica anti pacifista, che similmente al ragionamenti che sorregge le aporie della dottrina che Ella avversa, finisce per non sfuggire ai comuni vizi dell’apriorismo epistemologico su un certo modo di intendere e soprattutto giustificare, secondo criteri che prendono a modello metodiche da realpolitik, la deterrenza militare (intesa come inarrestabile corsa a chi possiede più armi ultra sofisticati con potenziali di morte non solo nei teatri di guerra, come sono appunto le testate nucleari capaci di causare una ecatombe del genere umano) come unico modo per contrastare le smodate mire espansionistiche dei paesi “imperialisti”, con la conclusione che il male non può che contrastarsi con altro male.
Questo ha senso se ci si trova a doversi difendere, come sta succedendo all’Ucraina, da una concreta minaccia di invasione dei propri territori.
Non così in un quadro di normale conduzione e “manutenzione” dei rapporti tra gli Stati, formati sui principi ed i valori dello Stato di diritto, dove dovrebbe essere bandito ogni ricorso all’aggressione militare contro altri popoli.
In questi casi sono le forze politiche e soprattutto i loro progetti e i loro valori, in relazione al modo di affrontare la convivenza tra i popoli e il rispetto delle culture, a fare la differenza. Se così avesse ragionato Gandhi, avremmo ancora l’India sotto la corona britannica. C’è poi un particolare, nel caso specifico di questa nostra iniziativa, che fa l’ulteriore differenza.
Le testate atomiche, rispetto a tutte le altre armi, hanno, come detto, la potenzialità, irreversibile, di distruzione del genere umano.
Basterebbe questo perché possa ontologicamente giustificarsi, non come azione ingenua o surreale, il prorompente proposito di un partito come il nostro, dal pensiero mite e inclusivo, che fa della primazia della tutela della vita e della persona la causa principale della propria azione politica, in direzione del bene comune e della convivenza pacifica tra i popoli.
Ponendosi in una linea ideale che dia fortemente il segno di quanto sia grande l’impulso alla convivenza pacifica che alberga nelle coscienze di tanti popoli.
Del resto e cosa nota che non sono mai i popoli a volere la guerra ma i loro governanti. Ovviamente fatto salvo la circostanza in cui un popolo che è costretto a difendersi da concrete aggressioni nei propri territori.
E queste iniziative, come quella che si vuole proporre, non fanno altro che andare nella universale direzione di perseguire il bene comune all’interno dei confini del nostro pianeta. Quali altri strumenti, al di fuori dell’opera preziosa delle diplomazie, che però quando agiscono nei momenti di crisi acuta, spesso finiscono solo per rinviare i nodi di un possibile conflitto, possono proporre le forze politiche, come la nostra, per creare argine, attraverso l’emersione di una coscienza comune, non solo al proliferare delle armi atomiche e agli equilibri del terrore, messi in campo dalla seconda metà degli anni ‘50 del secolo scorso, ma ergendosi, assieme ad altre forze politiche e all’Ue in difesa di un modello di rapporti sociali e di cooperazione senza barriere?
La tragedia di questa pandemia, e le tragedie del primo e del secondo conflitto bellico, che tanto orrore e tanti morti hanno portato sui continenti di mezzo mondo, forse non ci sono ancora serviti per capire che l’unica arma per salvare il genere umano dalle innumerevoli minacce, non solo delle armi atomiche, non è altro che un nuovo modello di sviluppo e di convivenza all’interno dei confini del mondo?
Non disgiunto dal rispetto delle diversità culturali e organizzative che dobbiamo, per un principio giusnaturalistico a ciascuna comunità sociale.
In conclusione non mi pare un fuor d’opera il proposito di un proclamato e convinto impegno, anche sulla scia del forte monito che è venuto da Papa Francesco, nella prospettiva di un nuovo patto sociale fondato sulla soluzione dei tanto nodi che i poteri costituiti hanno lasciato incancrenire nei viali della storia, passata e recente: dall’endemica tragedia della fame nel mondo; allo sfruttamento con redditi irrisori, in aggiunta a quello minorile ad opera delle grandi multinazionali; dalle predazioni di materie prime, sfruttando, in tante aree del mondo, debolezze o insaziabili appetiti dei despoti di turno; all’incuria con cui si è lasciato inquinare, fin quasi al punto di non ritorno, il pianeta esponendolo ad un mutamento climatico che sconvolgerà in questi prossimi anni l’assetto di tanti territori geografici e delle loro comunità sociali.
Luigi Rapisarda