Lo scontro avvenuto nei giorni scorsi tra Luca Zaia e l’on. De Luca jr sul progetto di autonomia differenziata ripropone anche a noi DC e Popolari un tema che, specie nel Veneto, ha rappresentato per molti anni un fattore di seria riflessione, sfociato nella proposta che, come Popolari del Veneto, formulammo nel 2015, della macroregione del Nord -Est. Alla fine del 2015, infatti, con molti autorevoli amici veneti, avevamo condiviso l’idea della macroregione del Nord-Est, convinti come eravamo e siamo che esista, ed è costituzionalmente previsto, un meccanismo, mai esplorato, per arrivare alla macroregione “speciale” triveneta, con Trentino e Friuli-Venezia Giulia, omogenee per cultura, storia, caratteristiche economiche e tessuto sociale, a costo “zero” per lo Stato.

Attraverso, cioè, l’applicazione dell’art. 132, comma 1, della Costituzione, ossia promuovendo la richiesta di fusione delle tre regioni venete da parte di tanti consigli comunali quanti rappresentino 1/3 della popolazione complessiva (circa metà del Veneto). In tal caso si determinerebbe la convocazione di un referendum, che, se avesse esito positivo obbligherebbe le camere a discutere una legge costituzionale di accorpamento del Triveneto.

Fondere due regioni speciali e una ordinaria avrebbe comportato necessariamente la creazione di una macroregione speciale, in cui vi sarebbe stata una diversa modulazione, anche mantenendole invariate, delle attuali risorse dello Stato per il medesimo territorio, altresì potendo l’intero triveneto beneficiare della autonomia fiscale ora riconosciuta solo a TTAA e FVA. Inoltre, sul piano strategico una macroregione del nordest, cuore e crocevia degli assi nord/sud ed est/ovest dell’Europa, appariva a tutti noi uno straordinario strumento di attrazione di investimenti, nonché di interlocuzione autorevole con le istituzioni italiane ed europee a immediato beneficio della crescita dell’intero territorio.

La proposta avrebbe potuto nascere da alcuni Sindaci di importanti città venete, sotto l’egida di autorevoli riferimenti veneti nel mondo del diritto, delle professioni, dell’economia, della cultura, dell’editoria. Quella nostra indicazione, ahimè, non fu raccolta dalle forze politiche presenti nel Consiglio regionale del Veneto e cadde tra i “wishful thinkings” (pensieri vaghi) impotenti e insoddisfatti. Peccato, perché sarebbero bastati i pronunciamenti dei consigli comunali dei sette comuni capoluoghi del Veneto per far scattare quel referendum.

La Lega e il Presidente Zaia, con la maggioranza del consiglio regionale veneto, decisero diversamente, proponendo la strada di un referendum consultivo per la cui indizione si è ebbe via libera dalla Corte costituzionale. Comprensibili le opposizioni di chi considerava quella consultazione senza effetti concreti sul piano istituzionale; tuttavia, dopo che altre due richieste avanzate negli ultimi vent’anni erano state ignorate, noi Popolari veneti ritenevamo che non ci si dovesse  far sfuggire l’occasione per gridare alto e forte la nostra volontà di acquisire una più ampia autonomia del tutto simile a quelle di cui godono i nostri fratelli del triveneto: friulani, trentini  e alto-atesini.

Alla fine, perciò, anche noi popolari veneti partecipammo convintamente al voto referendario del 22 Ottobre 2017 a sostegno di quell’autonomia regionale che è  parte essenziale della nostra migliore tradizione e cultura politica.

Una forte partecipazione fu ottenuta in quel voto, così come fu plebiscitario il sostegno a una maggiore autonomia della nostra Regione, costituendo, come di fatto è avvenuto, la precondizione politica per aprire un confronto con il governo centrale non più rinviabile. Ritenevamo, ora come allora, che 50 miliardi di fondi versati da Lombardia e Veneto al governo centrale, sottratti dall’imposizione fiscale dei lombardo-veneti siano una cifra enorme non più sostenibile.

Non intendevamo e non intendiamo sottrarci ai doveri della solidarietà a favore delle regioni italiane meno fortunate, ma riteniamo che non possano più essere accettati gli sprechi e il malgoverno di realtà istituzionali come quelle che reggono la sanità campana e di altre realtà meridionali o lo sfregio a ogni logica elementare di buona amministrazione cui è stata condotta la Regione Sicilia.

Da molto tempo sosteniamo, con l’insegnamento del compianto prof. Miglio, l’idea di un’Italia federale organizzata sulla base di cinque o sei macroregioni, ma, ahimè, sin qui le nostre sono state inutili “grida nel deserto”, in un Paese centralista che non si rende conto, così com’è attualmente organizzato, di essere destinato al fallimento.

Il tema è ancor più attuale oggi con la volontà espressa dal governo Meloni di procedere verso un premierato che si potrebbe accettare solo se bilanciato da una struttura istituzionale di tipo federale sul modello tedesco, ossia, con la presenza di un sistema organizzato su cinque o sei macroregioni in grado di superare l’attuale frammentazione non più compatibile con la realtà italiana nel contesto europeo e internazionale.

Saremmo di fronte a una profonda modifica dell’assetto costituzionale perseguibile non con il ricorso a referendum a cascata sulle principali modifiche istituzionali, ma solo con l’indizione di una nuova assemblea costituente con noi DC e Popolari disponibili a sostenere un cancellierato sul modello tedesco, espresso da una legge elettorale di tipo proporzionale con sbarramento e sfiducia costruttiva e con un bilanciamento istituzionale garantito tra cancellierato e macroregioni.

Auguriamoci che i due progetti di riforma presenti in parlamento per il premierato e l’autonomia differenziata, non siano solo motivo di scambio politico tra Fratelli d’Italia e Lega, di un governo espressione di un parlamento eletto da una minoranza del corpo elettorale, ma l’occasione per un dibattito serio istituzionalmente risolvibile solo attraverso un’assemblea costituente non più rinviabile.

Ettore Bonalberti