Francesco Cossiga è stato forse uno dei più̀ colti tra gli uomini politici italiani. Non considero però la sua straordinaria cultura, che comprendeva anche la conoscenza di molte lingue (tra cui il sardo, per lui molto importante) come fattore di distinzione tra lui e gli altri politici italiani. Una discriminante, anche se non la più̀ significativa, era la scarsa importanza che attribuiva al denaro e alla posizione sociale.
A ventitré́ anni era già̀ professore ordinario di Diritto costituzionale all’università̀ di Sassari e a venticinque anni segretario provinciale della Democrazia Cristiana della stessa città. Era imparentato con i Segni e i Berlinguer e faceva parte di una ricca famiglia. Era di bell’aspetto, alto, prestante, ma non aveva, nonostante quello che si disse durante la sua vecchiaia, un grande interesse per le avventure sentimentali.
Cristiano convinto, anche se un po’ in odore di massoneria, si sentiva diverso dagli altri, soprattutto perché́ lo affascinava il potere dell’informazione. In altri momenti storici sarebbe stato una grande spia o un grande ministro degli Interni, come il rivoluzionario Fouchet, che tanto ammirava, o il cardinale Richelieu, che inventò i servizi segreti e di cui è rimasto famoso il messaggio: «È per mio ordine e per il bene dello Stato che il latore della presente ha fatto quello che ha fatto», come si legge nei Tre moschettieri.
L’elemento di separazione fra il genio di Cossiga e quello degli altri grandi politici, compresi Andreotti, Fanfani, Moro e l’amato e odiato cugino Berlinguer, era quindi il gusto di sapere dove gli altri immaginavano soltanto, di tacere o meno giudicando solo in base alla propria coscienza. Per questa ragione, dopo aver fatto una normale carriera politica, che lo portò giovanissimo in Parlamento, quando divenne sottosegretario alla Difesa del ministro Tremelloni fu di fatto lui a occuparsi per decenni dell’andamento dei servizi segreti e quindi lui a sapere se per il generale Maletti fosse più̀ utile tenere corsi di formazione in Sud Africa o rimanere in Italia a svolgere le sue funzioni, magari per organizzare Gladio in previsione di un’eventuale ribellione o invasione comunista.
Moro ebbe un’idea eccellente quando, al momento della nascita del governo Andreotti con il perico- loso appoggio dei comunisti, fece nominare Cossiga ministro degli Interni. Giustamente riteneva che l’uomo più̀ informato d’Italia sarebbe stato un adeguato controllore sia di Andreotti sia di Berlinguer. Né Moro, né Cossiga immaginarono, però, che Moro potesse finire come ostaggio nelle mani del nemico.
Se qualcuno chiedesse a chi scrive quanto Cossiga sapesse di quel sequestro, potrei soltanto dare due risposte, che si contraddicono tra loro. La prima è che Cossiga aveva una coscienza religiosa che gli avrebbe impedito in ogni caso di permettere e poi proteggere il sequestro di Moro. La seconda è che con ogni probabilità̀ era uno tra i pochissimi, assieme allo stesso Moro, ad Andreotti e a Berlinguer, a vedere il fondo del pozzo nel quale l’Italia intera rischiava di precipitare se Moro fosse stato salvato.
Era quindi evidente il conflitto tra la sua coscienza e la sua conoscenza. Solo questa terribile contraddizione può̀ spiegare il pianto non liberatorio a Torrita Tiberina davanti alla tomba di Moro. Si piange non solo perché́ si pensa di aver perso qualcuno di importante o che si ama, ma anche perché́ si sa che si poteva fare di più̀ e non lo si è fatto perché́ il prezzo sarebbe stato altissimo.
È opportuno a questo punto ricostruire lo scenario mondiale di quegli anni Settanta gravidi di tante incognite e pericoli. Nel settembre del 1973 Pinochet aveva preso il potere in Cile tra gli applausi degli americani. In Cecoslovacchia prima e in Polonia dopo, con un colpo di Stato militare l’URSS confermava i patti di Yalta e ribadiva l’intoccabilità̀ del suo impero, anzi, si espandeva, con l’aiuto dei cubani, in Angola e in Etiopia, invadeva l’Afghanistan, timorosa degli accordi segreti tra americani e cinesi, che indubbiamente avevano cambiato l’equilibrio del mondo. In Turchia, un altro Paese della NATO, nello stesso periodo i generali realizzavano l’ennesimo colpo di Stato.
Lo scià di Persia, per una disgraziata decisione francese di rispedire a Teheran l’ayatollah Khomeini, veniva cacciato a furor di popolo. Evento questo che, dopo qualche anno, avrebbe scatenato una sanguinosissima guerra tra Iran e Iraq, che sarebbe durata un decennio.
Chi scrive si trovò casualmente a cena con Cossiga, presidente del Consiglio, e con un importante diplomatico italiano. Durante il loro colloquio estremamente franco, mi resi conto che i miei commensali erano soddisfatti di questo massacro, perché́ avrebbe consentito di vendere molte armi ai due contendenti, in cambio del loro petrolio. Inoltre, l’eterno problema palestinese che aveva scatenato una guerra civile nel Libano, dove erano contrapposti Arafat e il generale Sharon, induceva gli americani a rafforzare la loro presenza in tutto quel settore, al punto di mandare i migliori agenti segreti in Afghanistan ad addestrare persone come un certo bin Laden, uno degli uomini più̀ ricchi del mondo, amico personale della famiglia Bush, allo scopo di sconfiggere l’URSS in una guerra in campo aperto.
Il modesto Carter si limitava a delle rappresaglie, come quella di decidere l’astensione degli USA dalle olimpiadi di Mosca nel 1980. Il duro Reagan, invece, faceva bombardare la Libia e avviava un programma di armamenti capace di far tremare la potenza russa, appoggiato in ciò̀ dal primo ministro inglese Thatcher, che aveva appena ribadito con la forza il dominio sulle isole Falkland o Malvinas e avviato un vasto programma di rinnovamento della flotta che veniva dotata di sommergibili nucleari. Andropov, dal canto suo, molto probabilmente cercava di togliere di mezzo in tre attentati successivi Reagan, il Papa e Sadat, fallendo i primi due.
Cossiga, mentre cercava di sedare le sue ansie con tranquillanti ed eccitanti o, comunicando con la Citizen Band al mattino presto dalla sua scrivania di lavoro con i naviganti, con il nome di ammiraglio Nelson, diventava prima presidente del Senato, poi della Repubblica. Contemporaneamente cercava di realizzare un suo progetto per tirare l’Italia fuori da questo mare tempestoso in cui, per citare Dante, rischiava di naufragare per mancanza di nocchiero. Il nocchiero era lui. Va ricordato che nel periodo in cui Cossiga si avvicinava alle cariche più̀ alte, erano accaduti alcuni eventi di grande rilevanza sia sul piano interno sia su quello internazionale. Sul piano interno, dopo la morte di Moro, superata la crisi psicologica che lo aveva duramente provato, era rientrato in politica attraverso il portone spalancato della sinistra di Base guidata da Marcora e De Mita.
Tra questi due uomini ci sarebbe stato certamente un conflitto se la morte non si fosse portata via Marcora, che era il tesoriere della corrente di Base e anche, sotto certi aspetti, un imprenditore politico, desideroso di riprendere i progetti di Mattei. De Mita, invece, non aveva, contrariamente a quello che pensavano De Benedetti, Agnelli e altri grandi imprenditori, alcuna intenzione di cedere loro il controllo dell’economia italiana solo perché́, a loro giudizio, a lui piaceva solo filosofeggiare.
Infatti, contro le loro attese, aveva provveduto subito a occupare le presidenze delle più̀ importanti banche italiane. Attraverso il giovane ministro del Tesoro Goria, uno dei suoi prediletti, aveva nominato Zandano alla presidenza del Sanpaolo, Mazzotta alla presidenza della Cariplo, Barucci alla presidenza del Monte dei Paschi di Siena, riconfermato Ventriglia al Banco di Napoli e allargato la sfera d’influenza di Geronzi, portando a tre le banche sotto il suo controllo. Inoltre, senza disturbare Cuccia, fino ad allora il grande stratega dei movimenti bancari in Italia, si preparava a far nascere un gruppo bancario nel Veneto, l’Unicredito, e a portare un altro esponente della sinistra di Base, il professor Siro Lombardini, alla presidenza della più grande banca popolare italiana, la Popolare di Novara.
Goria per favorire Geronzi metteva in liquidazione addirittura la Federconsorzi, che era la tesoreria della Coldiretti. De Mita, insomma, faceva girare sulla testa del capitalismo italiano il nodoso bastone del controllo bancario, come a dire «sono io che comando, non voi». De Mita fece nascere anche una banca nell’Irpinia depositaria di molto denaro per la ricostruzione del dopoterremoto. Proprio queste vicende legate al terremoto permisero ai capitalisti proprietari dei giornali di tirare il fiato e di contrattaccare De Mita, che divenne oggetto d’indagine di una commissione d’inchiesta presieduta da Scalfaro.
La reazione di De Mita fu di portare nel 1985 Tabacci alla presidenza della Regione Lombardia. Sul piano internazionale, l’URSS si andava rapidamente disfacendo, il sistema sovietico, avverando la previsione fatta quarant’anni prima da Churchill, che ne aveva parlato nei suoi discorsi al Parlamento britannico e scritto in alcune lettere a Roosevelt, stava implodendo. Dopo la morte, in rapida successione, di Brežnev, Černenko e Andropov, il nuovo arrivato Gorbaciov, le cui parole d’ordine erano trasparenza e riorganizzazione, si trovò ad affrontare il disastro dell’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl, che mise in pericolo la vita di milioni di ucraini, sotto la pesantissima corsa alle armi degli USA di Reagan, che faceva prevedere, nel giro di pochi anni, il crollo militare dell’URSS, e infine sotto la pesante sconfitta afghana, che lo costrinse al rientro di corsa dopo aver perso migliaia di soldati.
Peggio ancora, la Cina che finiva sotto il controllo di un discepolo di Zhou Enlai, un grande giocatore di bridge e con- fuciano pragmatico, Deng Xiaoping, di piccolissima statura ma estremamente furbo, il cui motto era: «Non mi interessa il colore del gatto purché́ acchiappi i topi». Insomma, la classe dirigente stalinista e poststalinista si era dissolta e Gorbaciov, assediato dagli americani e dai cinesi, non era in grado di resistere. Cossiga, l’uomo più̀ informato d’Italia, si rese conto che nasceva una nuova epoca storica che l’Europa occidentale non era assolutamente pronta ad affrontare, anche perché́ da un momento all’altro poteva cadere il muro di Berlino e la riunifi- cazione tedesca avrebbe creato una grande preoccupazione negli altri Paesi europei.
Questi temevano che Bruxelles difficilmente sarebbe diventata la capitale politica di un’Europa sulla strada della riunificazione, piuttosto un centro tecno-burocratico che, come disse sprezzantemente la Thatcher, poteva solo occuparsi delle dimensioni delle uova e della nascita di una nuova moneta che non interessava minimamente alla Gran Bretagna, la quale rimase legata alla sua amatissima sterlina.
Cossiga aveva elaborato, nel silenzio del Quirinale, alcuni progetti politici che, se attuati, si sarebbero rivelati di grande rilevanza. Il primo prendeva atto che con il crollo del comunismo orientale le macerie sarebbero cadute anche in Occidente e che per opporsi all’egemonia gramsciana, che grazie a Berlinguer aveva fatto passi da gigante, occorreva sostituire con la massima velocità possibile i partiti tradizionali con Comitati di Partecipazione e di Riforma in un nuovo sistema politico, non più̀ basato sulla Costituzione vecchia, ma su una nuova.
Questa doveva essere realizzata dai nuovi partiti nascenti guidati da uomini che non dovevano essere quelli del CAF, fatta eccezione forse per Craxi, nei cui confronti Cossiga provava una certa ammirazione personale. Per quanto concerneva l’estero, egli guardava ormai più̀ al bacino del Mediterraneo che non all’Europa continentale, dove ben presto la Germania, affiancata dalla Francia, si sarebbe imposta come potenza dominante. Intendeva infatti riprendere la politica estera di Mattei immaginando che l’Italia, la Spagna, i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente avrebbero potuto ricostruire una specie di Impero Romano finalmente liberato dall’ombrello angloamericano.
Prevedeva un rapporto preferenziale di questo nuovo mondo con l’India e la Cina. Il sogno era bello, ma Cossiga fu costretto a fare subito i conti con una realtà̀ che nemmeno lui poteva conoscere. Innanzitutto, si dovevano gestire i postumi delle sanguinose imprese delle formazioni terroristiche, che avevano colpito persone come il giudice Alessandrini, il commissario Calabresi, il giornalista Tobagi, tutti uomini nuovi, assolutamente «per bene» e presentabili, pronti per una rinnovata stagione della politica italiana, la cui scomparsa lasciava indubbiamente un vuoto. Inoltre, i vecchi compagni di bordo non mancarono di mandare segnali minacciosi. Andreotti voleva a ogni costo, avendo l’età̀ giusta, salire al Quirinale e capì che Cossiga stava lavorando per altri progetti. Allora, per ingraziarsi i comunisti italiani e sbilanciare Cossiga, scopi che furono raggiunti, rivelò l’esistenza di Gladio attribuendone ogni responsabilità̀ a Cossiga, che sotto questa accusa vide tutti i suoi sogni disinteressati sfumare.
Da quel momento Cossiga iniziò ad avere frenetici attacchi di collera e, usando dei suoi poteri, a sferrare colpi di «piccone» contro la vecchia Costituzione per dimostrare che il Sistema era finito. A confermare che lo fosse contribuì l’attività̀ di certi esponenti della vita siciliana che, sentendosi abbandonati dall’onorevole Lima, considerato l’ambasciatore dell’onorevole Andreotti, lo uccisero, dando il via a una stagione stragista contro i magistrati che influì̀ negativamente su quei politici che avevano troppi voti in Sicilia come Andreotti, in Campania come Gava, in Calabria come Mancini.
Lo stesso De Mita, da poco insediato alla presidenza del Consiglio, fu costretto a consegnare la segreteria del partito all’onorevole Forlani e, infine, ad abbandonare tutte le sue cariche. Mentre al Sud lo stragismo imperversava, al Nord l’arresto di quello che Craxi definì un «mariuolo» (perché́ si chiamava Mario) provocò l’esplosione di quella famosa egemonia gramsciana che finalmente trovava il via libera attraverso la stampa e la magistratura.
Come nell’immortale brano manzoniano dedicato ai capponi che Renzo portava ad Azzeccagarbugli, i quali, invece di aiutarsi tra loro nella sventura, si beccavano, i grandi politici di quel momento, Cossiga compreso, non fecero che picconarsi a vicenda. Andreotti vide sfumare il Quirinale, che finì nelle ben salde mani di Scalfaro, tuttora vivo, Craxi e altri dovettero fuggire o ritirarsi dalla politica, qualcuno purtroppo suicidarsi.
Cossiga lasciò il Quirinale con qualche mese di anticipo e con il grande rimpianto, lui che sapeva tutto, di non aver previsto proprio le potenzialità̀ distruttive di Andreotti, che forse un giorno, molti anni prima, De Gasperi aveva intuito quando non lo propose come segretario del partito della DC. Da quel momento Cossiga si divertì a fare il commentatore politico, l’indovino, il sussurratore riservato.
Quando Montanelli gli aveva chiesto, mentre Cossiga era ancora al Colle, se era vero che dietro quel suo agitarsi ci fosse una bella donna, Cossiga non gli rispose ma gli domandò a sua volta: «Chi si dice che sia?» con grande curiosità̀. Quando Montanelli gliene fece il nome Cossiga disse: «Mi va bene, non smentisca».
In realtà̀, come sanno quelli cui lui era caro e hanno sofferto per la sua morte, nel fondo del suo cuore c’erano la sua famiglia, la sua Sardegna, la sua fede e i suoi sogni che si portò con sé oltre la vita, mi auguro in Paradiso.
Ezio Cartotto *
* (Pagine tratte dal libro di Ezio Cartotto: Gli uomini che fecero la Repubblica - L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il senso della politica nell’Italia di oggi,- 2012 Sperling & Kupfer. Per gentile autorizzazione di Elena Cartotto)