La fede armata (Il Mulino, Bologna 2022) è il titolo di un libro scritto dalla storica Lucia Ceci, docente a Tor Vergata, ed è anche il tema della conversazione svoltasi a suo tempo nella capitale a Palazzo Firenze (si entrava solo con registrazione preventiva e green pass rafforzato) per la rassegna “Pagine di Storia”, alla presenza dell’autrice, di Andrea Riccardi, Miguel Gotor e Michela Ponzani. A Forlì per l'accesso all'evento valevano le disposizioni sanitarie attive al momento, ossia l’obbligo di indossare la mascherina chirurgica. Se ne è parlato, con meno restrizioni, anche nell’ambito de “I giovedì del Parri” con Alfonso Botti e Matteo Millan.

Nel volume la Ceci indaga il rapporto culturale del cattolicesimo con l’esercizio della violenza in un’epoca caratterizzata da mutuazioni e ibridazioni tra registri religiosi e prospettive politiche. “Rappresentazioni simboliche, mistiche del sacrificio, fonti teologiche della tradizione cristiana – spiegava l’editore - hanno fornito a individui e gruppi repertori e motivazioni per giustificare il ricorso alla violenza insurrezionale, nella convinzione che la scelta armata fosse non solo legittima, ma obbligatoria: per difendere istituzioni e valori ritenuti irrinunciabili o per promuovere trasformazioni radicali della vita pubblica”. 

Sulla fede armata ecco però una precisazione del presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, Davide Prosperi, secondo cui “occorre non dimenticarsi che la bellezza è sempre in un certo senso anche armata”. La bellezza di Cristo – spiega Prosperi in un’intervista a Marco Ascione - è anche spada, attrae e contesta, sfida, ferisce e in questo è anche “armata”, non perché abbia bisogno di “armi” esterne. Lorenzo Prezzi osserva: “Prendendo le distanze da La Bellezza disarmata, titolo di un libro di Carrón (2015), Prosperi annota che la testimonianza gratuita della fede che attrae va completata. In altri termini, la tradizione battagliera dei decenni di fondazione, quella di una bellezza armata capace di contestare, sfidare e ferire, va riproposta per evitare che la fede concepita soggettivisticamente rischi di essere svuotata del suo contenuto di verità corporale, di fatto finendo per essere ridotta al senso religioso”. 

Da ultimo viene ora, edito dalla Lanterna, il volumetto di un nostro collaboratore che s’intitola proprio “La fede armata”. Giacinto Reale l’ha letto tutto d’un fiato lo svelto libretto che Ruggero Morghen (“una garanzia” secondo Antonio Mucelli) ha dedicato ad Italo Conci, il tenente della Legione Fiumana “fedelissimo di d’Annunzio” colpito a morte dai soldati nittiani negli scontri del “Natale di sangue” del 1920. Un libro imperdibile – osserva il lettore - che, come e più dei precedenti dello stesso autore, contiene una gran messe di riferimenti non solo bibliografici (vi sono citati pure Enrico Ruggeri e Franco Battiato) e rappresenta una lettura perniciosa, perché – spiega - “mi lascia con l’amaro in bocca di non sapere (o di saper troppo poco) di storie che mi piacerebbe e mi sarebbe utile conoscere a fondo”.

L’espressione “fede armata” la ritroviamo però già nel dannunziano Libro segreto, volume edito nel giugno del 1935, una trentina di mesi prima della morte del poeta. Qui infatti egli parla diffusamente del legionario di Vezzano dicendo di Italo Conci che “senza tregua aveva combattuto dal principio della guerra, egli suddito da capestro in terra oppressa, come Cesare di Trento, come Damiano di Rovereto: ma la sua fede armata rideva sempre”. Non solo: anche “la sua credenza invitta e la sua passione avida ridevano sempre”.