Fa specie leggere su il Popolo del 28 luglio scorso dal titolo: “80mo del Codice di Camaldoli tra memoria e…qualche delusione”:”..A celebrare gli 80 anni del Codice di Camaldoli non è stato invitato nessun democratico cristiano..”.
E di seguito si aggiunge:”..Il secondo rammarico è dato dal fatto che è mancato un preciso destinatario della Riconsegna del Codice di Camaldoli. Né la prolusione del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Matteo M. Zuppi, né il Cardinale Segretario di Stato di Sua Santità Pietro Parolin, né i Relatori che si sono susseguiti hanno individuato un soggetto cui riaffidare il Codice camaldolese..”.
Contestualmente leggiamo su il Domani d'Italia del mese scorso un pregevole articolo di M. Follini che si interroga se non sia il caso che destra e centro marchino bene le loro diversità. Così da quelle pagine:
”..Ma il vero problema resta quello identitario e dovrà pur essere sviscerato, un giorno o l’altro. Il problema cioè è quello dei confini che si pongono alla destra di una formazione di centro. Questione che all’epoca la Dc italiana risolse sbarrando il passo a ogni forma di collaborazione (salvo qualche eccezione sottobanco). E che oggi tende piuttosto ad essere interpretato nella chiave opposta. Se non altro per comodità numerica.”.
Un giudizio severo che ci impone di guardare al nostro interno e chiedersi, in primis, a cosa è servito e quali effetti ha prodotto il recente XX Congresso DC.
L’impressione più credibile sembra descriverci quell’assise congressuale più per tirare la volata ad operazioni di trasformismo, ancora oggi per taluni iscritti, poco convincenti, ponendo a portabandiera personalità le cui connotazioni identitarie, stando ai loro recenti profili, non appaiono agevolmente riconducibili ai precipui valori di riferimento del partito.
In questo scenario ci sembra quanto di più avventata e totalmente decontestualizzata dalla realtà attuale l’esultanza di una dirigente di nuovo conio(la cui ambiguità politico identitaria non sembra sia stata risolta tra Strasburgo la cui collocazione politica resta senza riferimento ad alcuna forza politica e quindi non legata ad alcuna linea e l’Italia dove, aderendo alla DC è soggetta al rispetto delle regole statutarie) in confronto alle dichiarazioni di Tajani che ”la DC c’è”.
In primo luogo perché fa specie riscontrare come riconoscimento politico affermazioni quanto di più artificiose e strumentali da parte del segretario di FI che ha visto, con il suo mentore, Silvio Berlusconi, da sempre, la DC come area politica da occupare, facendo addirittura mostra del simbolo in una sorta di holding politico-parlamentare di cui fu artefice G. Rotondi.
L’episodio di poi non può non leggersi nel quadro della cruciale e ancora irrisolta questione del riconoscimento politico generale, erga omnes, della continuità storica di questa DC di cui oggi è segretario Totò Cuffaro con la DC di don Sturzo e di De Gasperi: riconoscimento che la farebbe uscire dal limbo identitario mettendola al riparo da pretese di ogni genere.
Un passaggio importante che abiliterebbe il partito nel quadrante europeo come naturale e autentica forza di centro oltre a poter giocare un ruolo in simbiosi con i partiti della stessa matrice culturale.
Ma un processo che al momento trova qualche ostacolo in più per la circostanza che gli elementi identitari del partito risultano deformati, nel nome e nel simbolo.
Condizioni che al momento indeboliscono la forza negoziale del partito nella procedura di accoglimento nella famiglia del PPE, tenuto conto, anche, del fatto che finora manca uno specifico provvedimento giudiziale che, oltre a riconoscerle continuità, le restituisca l’uso del simbolo, rimuovendo il paradosso di una DC che sebbene mai sciolta, deprivata dall’uso dello scudo crociato e quindi della sua integrità originaria è come se non esistesse nell’attuale sistema politico.
È appena il caso di precisare, poi, che Tajani la DC l’ha sempre immaginata più come area per velleitarie scorribande elettorali, che come forza per alleanze di progetto.
Ovviamente fantasie senza fondamento se rapportate alla realtà con cui il segretario di FI è chiamato a confrontarsi.
Di certo non è un vantaggio che un partito quale è FI, totalmente padronale e integralmente legato all'identità personale di Berlusconi, che non ha mai conosciuto una organizzazione basata sul confronto dialettico delle linee politiche e sulle maggioranze e minoranze, ma dove a decidere dai vertici alle questioni locali è stato sempre e solo il Cavaliere, possa ritrovare in così poco tempo un assetto pienamente democratico, con un progetto liberale e riformista, in modo di poter arginare una prevedibile fuoriuscita di voti.
Quindi l’attivismo di Tajani sembra più ascrivibile a una malcelata Opa che ha inteso lanciare nei confronti dell’area democristiana nel tentativo di ampliare la sua base elettorale piuttosto che il segno di una mera generosità politica.
Del resto il quadro in FI è talmente fluido che al momento nessuno osa scommettere quale performance sia in grado di ottenere alle prossime elezioni europee.
Luigi Rapisarda