Vittorino Colombo, brianzolo di Albiate, bruno, di media statura, dai lineamenti marcati e dallo sguardo intelligente, viveva con la sua cattolicissima famiglia di origine composta dalla mamma, da un fratello professore di Teologia dogmatica presso il seminario di Venegono e da una sorella che gli era molto affezionata.

Dopo una breve esperienza con i partigiani bianchi si trasferì nella periferia di Milano, vicino a piazza Prealpi, dove abitavo anch’io da vent’anni. Ebbi modo quindi di conoscerlo quand’era ancora giovane e assieme frequentavamo la stessa sezione di partito La Perazzoli, dedicata a un eroe della Resistenza. Anche lui, come Granelli, aveva iniziato dal basso come lavoratore in fabbrica, ma riuscì con molta tenacia a diplomarsi ragioniere e a laurearsi in Economia all’Università Cattolica di Milano.

Aveva un carattere un po’ spigoloso e si irritava con una certa facilità, per cui qualcuno lo soprannominò «Viperino Colombo», etichetta che gli rimase attaccata per tutta la vita. Era profondamente legato alle attività sociali della Chiesa, dell’oratorio, delle ACLI e della CISL. Era quindi un uomo della sinistra DC, la cosiddetta «sinistra sociale». Pur senza essere un grande oratore come Granelli, era capace di dare ai suoi discorsi forza, vigore e logica. Ricordo ancora una delle sue battute preferite, forse ispirata dal fratello teologo: «Noi crediamo in un Dio trino, non un Dio quattrino».

Vittorino Colombo, più che a Granelli, si può paragonare in qualche modo a Marcora; gli era simile per le sue notevoli capacità organizzative ed era anche lui capo della sua corrente, Forze sociali, in città e in Lombardia.

Quando, nel 1958, fu eletto deputato l’onorevole Buttè, Colombo gli subentrò nelle varie cariche nel mondo aclista e sindacale e si diede da fare per la realizzazione di case in cooperativa servendosi di validi collaboratori come il geometra Palmisano e l’ingegner Bianco. Attraverso vari mezzi di comunicazione, come il cineforum e spettacoli teatrali di ispirazione cattolica, sollecitava i giovani a impegnarsi in politica. Diede vita anche a una casa editrice che pubblicava giornali e quaderni su vari argomenti di interesse sociale.

Era un uomo infaticabile che, a differenza di Granelli, riuscì a essere eletto deputato fin dal 1958 grazie ai numerosissimi voti di preferenza del mondo cattolico. Dato che mi conosceva bene, desiderava che entrassi nella sua corrente politica e quando seppe che avevo scelto Marcora pur dispiaciuto, mi disse che sicuramente lui avrebbe mantenuto un’alleanza costante con la corrente di Base. Incuriosito per questa dichiarazione di fedeltà all’alleanza, gli chiesi da dove traesse origine la sua valutazione così positiva su Marcora. Non dimenticherò mai la risposta che mi diede.

Con mia sorpresa disse che considerava Marcora una persona affidabile sia perché era un buon padre di famiglia che non cercava altrove avventure, sia perché lo riteneva un uomo di grande buon senso, profondamente leale e capace di stare con i piedi per terra. Si diceva sicuro che Marcora non avrebbe mai tradito la loro alleanza. Mi accorsi anche che i due personaggi si frequentavano molto di più di quanto mi immaginassi e che non cerano gelosie e ambizioni che potessero metterli l’uno contro l’altro.

Tra i suoi collaboratori ricordo una persona straordinaria, la signorina Ester Angiolini, intelligente e generosa, che fu per decenni assessore al Comune di Milano e che morì poco tempo fa in tarda età. Un breve necrologio sui giornali diceva semplicemente: «È morta Ester Angiolini, una povera cristiana». In quegli anni io mi trovavo in serie difficoltà economiche ed Ester Angiolini mi fece assumere dal consorzio ACLI Casa per organizzare l’ufficio studi.

Vittorino Colombo era quasi sempre di buon umore, non gli mancavano infatti le battute felici, la voglia di raccontare barzellette pulite ed era sempre pronto a offrire da bere a chi si trovava con lui. Mi accorsi che continuava a tenermi in considerazione perché uomini della sua corrente mi invitavano a tenere discorsi e conferenze.

A metà degli anni Sessanta incominciò ad acquisire impor- tanza anche a livello nazionale ed eminenti personaggi come Gronchi, Pastore e Donat-Cattin lo fecero entrare nel governo, dove divenne sottosegretario alle Finanze. Ebbe la delega per la riforma della dichiarazione dei redditi e decise di abolire l’imposta comunale sul tenore di vita. Su questa sua scelta si sollevò una dura polemica in tutta Italia. In un convegno a Roma io stesso intervenni facendo osservare che era inopportuno togliere ai Comuni la facoltà impositiva, in quanto questi ultimi conoscevano molto meglio dello Stato il tenore di vita dei loro cittadini e potevano fare valutazioni più adeguate.

Concentrare tutto sullo Stato significava correre gravi rischi. Colombo mi rispose che aveva provveduto a far svolgere dai dipendenti del suo ministero un’attenta verifica, dalla quale emergeva che la maggior parte dei Comuni del Sud raccoglieva ben poco dal- le imposte locali. Inoltre, risultava che questi stessi Comuni presentavano un numero esorbitante di dipendenti comunali.

Perché accadeva tutto ciò? Dal sindaco di Messina, Colombo si sentì dire: «Onorevole, voi a Torino avete la FIAT, a Milano le banche e noi abbiamo il Comune». In tal modo il leader democristiano giustificava il rivoluzionario cambiamento che aveva introdotto nel sistema delle imposte.

Rieletto sempre con una valanga di voti, divenne negli anni Settanta ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni e suc- cessivamente ministro del Commercio Estero e della Marina mercantile. Come ministro delle Telecomunicazioni ebbe quindi a che fare con le televisioni private, che cominciavano in quel tempo a esistere, e quindi anche con Berlusconi e Telemilano. Attraverso collaboratori come Marcello Di Tondo cercò di capire bene il problema delle TV private, dato che la legge, in origine, attribuiva il monopolio delle televisioni alla RAI. Si trattava quindi di cambiare la legge. Colombo si avviò su questa strada, ma alcuni suoi collaboratori furono coinvolti in scandali e dovette allontanarli.

Era un uomo molto efficiente e quindi non apprezzava più di tanto la conduzione del partito dell’onorevole Moro; si sentiva più fanfaniano che moroteo.

Dovette affrontare anche una grossa crisi scoppiata nelle ACLI nazionali. Il presidente Livio Labor aveva deciso di entrare nel PSI e Vittorino Colombo combatté con tutte le sue forze questa decisione e la spuntò. Labor, messo in minoranza, entrò nel PSI di Craxi e Colombo si tenne stretta la maggioranza del movimento. Ebbe anche modo di scontrarsi con Donat-Cattin, che aveva voluto a ogni costo diventare vicesegretario nazionale del partito con Piccoli alla segreteria.

Accusò Donat-Cattin di avere lavorato sott’acqua senza tenere informati i membri della corrente e preannunciò una sua dissociazione. Non ce ne fu bisogno, però, perché Donat-Cattin, a causa delle vicende relative a suo figlio, dovette dimettersi dall’incarico.

Mentre Vittorino Colombo diventava senatore al collegio di Sondrio, perdeva la madre e il fratello, situazione che fa riflettere su come spesso la vita, nel darti qualcosa, è subito pronta a toglierti qualcos’altro, quasi a rispettare le regole di uno strano, e talvolta perverso, gioco di equilibri. Come ultima iniziativa importante va ricordato che diede vita all’Istituto italo-cinese per gli scambi economici e culturali, di cui divenne presidente, dimostrando con ciò di avere la vista lunga.

Infatti fu il primo politico italiano a mettere piede a Pechino e Tiziano Terzani, che è vissuto diversi anni in Cina, ha scritto che fu proprio grazie all’arrivo di Colombo che per la prima volta fu resa ac- cessibile la tomba del gesuita Matteo Ricci, che in Cina ebbe grandi incarichi politici dagli imperatori, i quali per gratitudine gli riservarono una solenne sepoltura.

Secondo Terzani, Vittorino Colombo non solo aprì la via del commercio tra Italia e Cina, ma favorì un inizio di dialogo tra la diplomazia vaticana e quella cinese.

Purtroppo non era destinato a vivere a lungo e poco più che settantenne, senatore in carica, morì.

Attorno a lui si era creato un gruppo che comprendeva fra gli altri il professor Caloia, allora presidente dello IOR e del Medio Credito Centrale, il professor Frigerio che, dopo essere stato segretario provinciale come esponente della Base, era diventato segretario regionale del gruppo di Colombo, gruppo che nel frattempo aveva cambiato il proprio nome: da Forze Sociali a Forze Nuove.

Suo stretto collaboratore fu anche Erasmo Peracchi, ex presidente della Provincia di Milano e vicepresidente dell’Alfa Romeo, che aveva militato nelle file partigiane e che meriterebbe un capitolo a parte. È curioso ricordare come Peracchi sia entrato nella Resistenza grazie a un avventuroso salvataggio che ebbe come protagonista una ragazza, destinata a diventare sua moglie, mentre lui si trovava sul treno che lo stava portando verso i lager tedeschi.

 

Ezio Cartotto *

 

*Pagine tratte dal libro di Ezio Cartotto: Gli uomini che fecero la Repubblica - L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il senso della politica nell’Italia di oggi - 2012 Sperling & Kupfer - su gentile autorizzazione di Elena Cartotto