Il nome di Giacomo Bologna, che fu deputato per quattro legislature, sempre eletto a Trieste, è legato a una vicenda che ha segnato profondamente la vita di alcune centinaia di migliaia di italiani. Quella dei profughi istriano-dalmati che al termine della Seconda guerra mondiale dovettero fuggire dalla loro terra, ceduta alla Iugoslavia di Tito. Nato a Isola d’Istria, oggi in Slovenia, nel 1922, Bologna era uomo di profonda formazione cattolica. Dopo il 1945, quando il suo paese si ritrovò nella Zona B, controllata dai comunisti iugoslavi, temette seriamente per la propria vita e in tutta fretta fuggì a Trieste. Qui divenne un esponente di spicco della Democrazia Cristiana, prima consigliere nazionale e poi deputato nel 1958, quando per la prima volta dopo la guerra Trieste elesse propri rappresentanti al Parlamento repubblicano.
Grazie al sostegno del mondo degli esuli istriani, dei quali fu il portavoce politico, fu ininterrottamente rieletto fino al 1976. L’anno prima – il 10 novembre 1975 – era stato stipulato a Osimo il Trattato italo-iugoslavo che cedeva definitivamente al governo di Tito la cosiddetta Zona B, fino a quel momento ancora formalmente italiana in base al Memorandum di Londra del 1954. Con ciò la linea di confine fra i due paesi cessava di essere provvisoria e diventava definitiva, spegnendo ogni residua speranza dei tanti che erano dovuti fuggire, come appunto Giacomo Bologna.
E’ noto che si tratta di una pagina fra le più controverse e oscure della nostra politica estera. Fu un inutile regalo a Tito, ormai ultraottantenne e al termine della sua parabola (sarebbe morto nel 1980)? Fu la necessaria conseguenza degli accordi conclusivi della Conferenza di Helsinki, svoltasi nell’estate del 1975, tre mesi prima di Osimo? Fu l’ultimo atto della pasticciata politica estera italiana, di cui l’ondivago confine verso Est, dall’unificazione in avanti, era stato la più vistosa manifestazione? La questione, efficacemente riassunta da Marina Cattaruzza nel suo L’Italia e il confine orientale (il Mulino, 2007), rimane aperta. L’autrice ricorda che il Trattato di Osimo fu sottoscritto “alla chetichella”, negoziato in maniera “singolare”, al di fuori dei canali diplomatici della Farnesina, concluso con l’accettazione da parte nostra di clausole che testimoniano “per lo meno un sorprendente dilettantismo e una stupefacente impreparazione”. Senza la firma di quel Trattato, è possibile che la dissoluzione della Iugoslavia, avvenuta una decina di anni dopo, avrebbe permesso una diversa articolazione della linea di confine, meno penalizzante per la parte italiana.
La sua formalizzazione, che accrebbe la già scarsa fiducia americana nei nostri confronti, suscitò poche reazioni in Italia, abbagliata dall’eurocomunismo di Berlinguer e ormai dimentica della questione triestina, ma, osserva ancora la Cattaruzza, a Trieste “ebbe l’effetto di un cerino acceso su un bidone di benzina”. La protesta esplose incontenibile, scatenando una rivolta civica che non fu un episodio locale ma diede la stura – non lo si dimentichi - a tutte le ribellioni delle periferie in cui si sarebbe sgranato negli anni successivi il nostro sistema politico. Nacque così nella città giuliana la Lista per Trieste, che scompaginò gli equilibri tradizionali e sfiorò alle elezioni del 1978 il 30%, conquistando la guida del Comune e 4 consiglieri nel Consiglio regionale. Uno dei quattro fu Giacomo Bologna, che aveva votato contro la ratifica del Trattato, fortemente voluto dalla sinistra democristiana di Trieste, ed era uscito fragorosamente dalla Democrazia Cristiana.
Oggi quel suo gesto può apparire una tardiva folata nazionalistica. In realtà fu la disperata riproposta di una causa frettolosamente rimossa dalla nostra smemorata coscienza nazionale. Giacomo Bologna morì nel 2011. Dieci anni prima aveva pubblicato un libro di ricordi, tra serietà e ironia, che aveva intitolato A salvare la patria c’ero anch’io. Forse.
Gianpaolo Romanato