Temo che solo a Venezia, dove nacque, il nome di Ida D’Este (1917-1976) dica ancora qualcosa. Eppure questa donna, che lasciò senza rimpianti il seggio parlamentare e decise consapevolmente di scomparire nell’anonimato, morendo a meno di sessant’anni, merita di essere ricordata almeno per due ragioni. Per la sua partecipazione alla lotta di liberazione, con il bel libro che ne ricavò, e per il contributo che fornì all’attuazione della legge Merlin.
Veneziana della buona borghesia, insegnante di lingue, dopo l’8 settembre aderì alla Resistenza e divenne staffetta di collegamento tra il centro veneto e le varie province. L’anno seguente entrò in clandestinità e il 7 gennaio del 1945 venne arrestata e detenuta per due mesi nel famigerato palazzo Giusti di Padova, dove agiva la banda Carità, tristemente nota per l’uso sistematico di violenze e sevizie sui prigionieri. Per due mesi anche Ida D’Este subì torture e vessazioni di ogni genere. Non essendosi lasciata sfuggire nessuna informazione, fu trasferita nel lager di Bolzano, dove fu impiegata fino alla liberazione nel lavoro coatto.
In seguito fu protofemminista, deputato nelle file della Democrazia Cristiana dal 1953 al 1958, dirigente del movimento femminile della DC. In Parlamento si batté soprattutto per l’emancipazione della donna, contribuendo attivamente all’approvazione della Legge proposta dalla senatrice Lina Merlin, socialista, che soppresse le case di tolleranza nel 1958. Convinta che l’unità d’azione realizzatasi nella resistenza fosse un valore da non perdere, si trovò isolata e incompresa nel suo partito e nel 1958 non tornò al Parlamento.
Abbandonò la politica e dedicò il resto della vita (aveva fatto da giovane un voto di consacrazione a Dio cui non venne mai meno) ad iniziative volte al recupero e all’inserimento sociale delle ex prostitute e di quelle che allora, spregiativamente, si definivano ragazze madri. In queste opere (due case di accoglienza nell’entroterra veneto) profuse proprie risorse. Una donna fuori dagli schemi, insomma, che non merita l’oblio in cui è caduta.
Ma se la ricordiamo è soprattutto per un altro motivo. Pubblicò nel 1953 un libro sulla propria esperienza resistenziale, centrato in particolare sui mesi di detenzione a Padova e a Bolzano e sulle violenze che subì a palazzo Giusti. Ormai introvabile, questo libro - Croce sulla schiena - è stato ora giustamente ristampato a Verona nel 2018 dall’editrice Cierre. Con una scrittura asciutta, essenziale, secca, totalmente priva di retorica e talvolta addirittura ironica, racconta come entrò nella resistenza e quali valori essa trasmise ad una giovane donna di allora. E poi descrive i mesi della detenzione: le violenze cui fu sottoposta, le torture, comprese le scosse elettriche. Spiega come i detenuti di palazzo Giusti ressero a quell’esperienza, come resistette all’unica violenza alla quale una donna consacrata come lei non era preparata: l’osceno denudamento dei vestiti che dovette subire davanti ai suoi aguzzini. Solo in quell’occasione perdette il controllo e urlò “vergognatevi”, riuscendo, quasi incredibilmente, a farli smettere.
Si tratta di un libro che merita un posto nella letteratura resistenziale e che ricorda a tutti noi, soprattutto ai più giovani, che il mondo in cui viviamo è stato costruito anche dall’eroismo di gente comune, dimenticata, come Ida D’Este.
Gianpaolo Romanato